Ovosodo

Ovosodo

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La voce narrante di Piero guida lo spettatore in un viaggio a ritroso e contemporaneo che in realtà sta già narrando il futuro: rivisto a venti anni di distanza, Ovosodo dimostra una notevole lungimiranza, raccontando non solo l’Italia di quegli anni, con tanto di supposto miracolo berlusconiano, ma anche quella che sarebbe venuta nei decenni successivi.

Io lo conoscevo bene

La vita, dall’infanzia all’ingresso nell’età adulta, di Piero Mansani, nato e cresciuto a Barriera Garibaldi, periferia di Livorno: la morte della madre, le amicizie, gli amori, le disillusioni e le gioie, con quell’ovosodo che non va né su, né giù… [sinossi]
Tanto qui è tutta una valle di lacrime
ma io ci piango di molto volentieri.
Dal film

Nell’immaginario cinematografico degli ultimi venti anni Ovosodo è diventato il sinonimo di Livorno: un accostamento senza dubbio meritato, nonostante la città toscana sia stata sfruttata dalla Settima Arte in lungo e in largo, dal Ben-Hur di Fred Niblo a Le notti bianche di Luchino Visconti, passando per Il sorpasso di Dino Risi e Tutti a casa di Luigi Comencini. Livorno, città portuale e operaista, in cui il conflitto di classe è evidente e irrimediabile, si adatta alla perfezione al cinema italiano, e in modo particolare alla commedia all’italiana. Paolo Virzì vi è nato, Francesco Bruni (il suo sodale in fase di sceneggiatura) vi è cresciuto; non è dunque un caso che nel mettere mano nel 1997 al film che avrebbe dovuto collocarli in maniera stabile nel sistema-cinema italiano, i due abbiano pensato ad ambientare Ovosodo proprio a Livorno. Dopo la Piombino de La bella vita e la Ventotene di Ferie d’agosto, ecco dunque la città labronica, con i suoi quartieri popolari e il lungomare, la sabbia bianca a causa delle scorie chimiche e (per citare il protagonista Piero) quell’ovosodo che non va né su né giù, ma al quale occorre abituarsi, e considerarlo un vecchio amico.
Virzì, è la sua filmografia a segnalarlo, è l’unico erede davvero compiuto della commedia all’italiana: in un cinema che insegue con sempre maggiore frequenza le traiettorie della piccola e media borghesia, parlando di crisi intime ed esistenziali, Virzì si è sempre mosso in controtendenza, cercando di allargare lo sguardo per comprendere il vero stato di crisi, quello sociale e collettivo, dal quale derivano anche i turbamenti della classe media. In un sistema che ha di fatto ridotto il proletariato a figura di sfondo, spesso messo in relazione a protagonisti che sono costretti ad “aprire gli occhi” sul panorama che li circonda (in una pratica che ha il suo parente più nobile nell’Europa ’51 di Roberto Rossellini), Virzì ha continuato a interessarsi a quel sottobosco dimenticato, fatto di operai, disoccupati, precari. Persone che non hanno, e mai otterranno, diritto di accesso nei salotti bene, e che vivono una vita senza sbocchi che non siano già predefiniti.

La voce narrante di Piero in Ovosodo, da questo punto di vista, guida lo spettatore in un viaggio a ritroso e contemporaneo che in realtà sta già narrando il futuro: rivisto a quasi venti anni di distanza (il film ebbe la sua prima mondiale alla Mostra di Venezia del 1997, ricevendo il gran premio della giuria nell’edizione che consacrò Takeshi Kitano con Hana-bi) Ovosodo dimostra una notevole lungimiranza, raccontando non solo l’Italia di quegli anni, con tanto di supposto miracolo berlusconiano, ma anche quella che sarebbe venuta nei decenni successivi. Una qualità, questa, che Virzì rinnoverà anche nel più recente Tutta la vita davanti, e che certifica una capacità di lettura del quotidiano che diventa analisi storica e del contesto. Pregio non facile da rintracciare nel nostro cinema, da molti anni a questa parte.
Al di là di questo, Ovosodo è un film invecchiato decisamente bene, e che merita di essere considerato un “giovane classico” del cinema italiano. La scrittura, pur affidandosi come già scritto alla voce fuori campo (di cui spesso la produzione nostrana ha abusato per risolvere strutture narrative altrimenti poco oliate o farraginose), mantiene una levità e una scorrevolezza ammirabili. Basta puntare l’accento su un paio di passaggi per rendersi conto di come Bruni e Virzì (grazie anche all’aiuto in fase di scrittura di un vecchio volpone come Furio Scarpelli) siano riusciti a condensare già nell’uso delle parole l’incontro tra melanconia e sagacia, ironia e mestizia che è il tratti distintivo del film. Quando ad esempio Piero deve istruire il pubbico su uno dei passaggi fondativi della sua infanzia, afferma: “Poi un giorno mamma morì, e noi non ci si dava pace. Come sarebbe stato vivere senza di lei? Babbo l’aveva molto amata: si erano conosciuti a ballare nell’estate del ’65, le aveva detto che era figlio di un armatore argentino che gli avrebbe lasciato in eredità un branco di soldi, una fabbrica di dolciumi a Sulmona e una villa in Canadà con due laghi, uno caldo e uno freddo. Invece non era vero. Aveva lavorato in porto, ma era stato licenziato: lui diceva per motivi politici, e di lì in poi nessuno ci aveva capito più nulla”.
Ancor più esemplificativo il ricordo delle prime smanie amorose del protagonista: “Invidiavo tutti quelli che sembravano a proprio agio con il segreto dell’amore, mentre per me quella misteriosa questione diventava sempre più un problema. Se ne accorse a sue spese la povera, dolce, Susy Susini, che abitava al secondo piano del mio palazzo. Quando la incontravo lei aveva reazioni che all’epoca non riuscivo a decifrare. Ero convinto di starle antipatico, invece Katia (che era la sua migliore amica) mi disse che le garbavo parecchio; infatti un giorno mi telefonò. […] Leggo dal diario di quel periodo: «Mercoledì 14 maggio 1987. Sentimento indefinibile da quando anche io ho una fidanzata: amore, è questo? Mi sembra più che altro orgoglio. L’amore è orgoglio? Riflettere.». Mi sa tanto che persi un po’ troppo tempo a riflettere. […] Dove avevo sbagliato? Perché non mi riusciva di fare come gli altri? Il problema era che io non mi ci vedevo a fare cucci cucci con una ragazza, a bisbigliare le paroline senza sentirmi un bischero totale. Pensavo: «O se fossi come Fabio? O addirittura come Danielino?». No, non mi ci sentivo portato, anche se certe esibizioni virili mi lasciavano anche più sbigottito. […] Ma mi guardavo bene dal confessarlo. Vivevo in un mondo che non ammetteva sfumature: un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo, ed eri bollato per sempre come finocchio.”.

Per dare l’adeguato sfogo a questo profluvio di parole, Virzì compone una narrazione visiva schizoide, ritmata da Jacopo Quadri in fase di montaggio con uno spezzettamento continuo dello spazio-tempo. Ne viene fuori un’esperienza a tratti quasi lisergica, che si immerge nell’humus di una città vitale e riottosa, vittima e carnefice allo stesso tempo: scegliendo fin dalle primissime inquadrature la parte da spalleggiare, Ovosodo cala il bildungsroman in una dimensione popolare e proletaria, guardando l’Italia dal basso e parteggiando per una riscossa impossibile. Nella messa in scena del conflitto tra le classi – evidente sia nell’ambiente scolastico cui Piero può accedere solo per intercessione della sua professoressa delle medie, e che lo accetta solo come anomalia non ostativa al sistema – Ovosodo mostra un’Italia impaludata, dove l’alto e il basso possono incrociarsi, ma mai fondersi davvero. Il migliore amico di Piero potrà anche essere per un breve lasso di tempo il ricco compagno di classe Tommaso Paladini, ma una volta usciti davvero nella società i loro destini si separeranno in maniera drastica: Piero costretto a lavorare (nella pestilenziale fabbrica del padre di Tommaso), l’amico a vivacchiare prima alla Normale a Pisa e poi in America, dall’altra parte dell’oceano.
Resta l’illusione di una generazione che ha creduto di poter superare certi limiti, per poi doversi accontentare di un “miracolo economico” privo di fondamenta, e ritrovarsi – proprio come i suoi genitori – a fare l’operaio, e ad abbandonare ogni velleità non corrispondente al proprio ceto. Virzì la mette in scena con una dolcezza partecipe che all’epoca fece storcere qualche naso di troppo (le stesse accuse patite anche dalla commedia all’italiana, in fin dei conti) ma che oggi appare a dir poco doverosa, e perfettamente calibrata. Abbarbicato a una narrazione che non lascia scampo allo spettatore, incollandolo allo schermo, Ovosodo non vive nell’asfittico stanzino in cui si rinchiusero negli anni Ottanta e Novanta molti film italiani, ma si apre a una narrazione popolare e in parte corale che accarezza commedia e dramma allo stesso tempo. Certo, i protagonisti di Ovosodo non sono brutti, sporchi e tantomeno cattivi, ma il mondo in cui si muovono non è meno crudele e spietato di quello che narrarono i vari Risi, Monicelli e Scola. Lo stesso mondo che Virzì tornerà a raccontare nel successivo Baci e abbracci (forse il suo titolo più sottostimato) e ancora in seguito, fino a Il capitale umano, in attesa di vedere – a Cannes? – il nuovo La pazza gioia.

Riscoprire Ovosodo è anche l’occasione per comprendere il disastro sociale odierno, le pratiche del potere, e le potenzialità di un’epoca del cinema italiano che con troppa facilità fu riposta in un angolo. Ma soprattutto per rimembrare una generazione perduta, ricordata attraverso “un gran casino di pasti saltati, Tienanmen, il comandante Marcos, Malcom X, Mandela e il movimento della Pantera, Zhang Yimou, Peter Jackson, Tondelli e Thomas Bernhard, sbronze, Kurt Cobain, baci dati e ricevuti, nuove posse, puzzo di piedi e rientri a casa all’alba con la testa rintronata”.

Info
Ovosodo, il trailer.
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