Paradise Beach – Dentro l’incubo

Paradise Beach – Dentro l’incubo

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La lotta tra umano e natura bestiale vista con gli occhi di una surfista braccata da un famelico squalo bianco. A dirigere Paradise Beach ci pensa Jaume Collet-Serra, per un thriller svogliato e ai limiti del demenziale.

Aggrapparsi allo scoglio

Nancy sta facendo surf da sola di fronte a una spiaggia isolata quando viene attaccata da un grande squalo bianco che le impedisce di tornare a riva. Anche se solo 200 metri la separano dalla salvezza, dovrà mettere in gioco tutta la sua forza di volontà per sopravvivere. [sinossi]

Non si può certo dire che Paradise Beach – Dentro l’incubo di Jaume Collet-Serra arrivi dal nulla. Da quando quarantuno anni fa Steven Spielberg rispolverò i temi centrali del Moby Dick melvilliano per dare vita all’agone tra umano e bestiale ne Lo squalo, Hollywood ha subito una vera e propria invasione di animali aquatici, volatili, striscianti o a quattro zampe in grado di mettere in grave pericolo la vita dei protagonisti. Se nessuno è stato in grado di avvicinare lo splendore e la cupezza del film di Spielberg, e solo una minima parte ha comunque dimostrato un minimo di originalità, qualcosa vorrà pur dire…
Tra tutti i ferali predatori apparsi sul grande schermo quello che torna con maggiore insistenza è lo squalo. Implacabile macchina di morte per eccellenza, il pescecane ha solleticato la fantasia di produttori e registi, che spesso ne hanno fornito una rappresentazione più prossima al mito che alla realtà. Negli ultimi anni il ritmo di apparizione al cinema si è fatto frenetico, come dimostrano tra gli altri Open Water di Chris Kentis, Dark Tide di John Stockwell, e Shark 3D di Kimble Rendall, senza contare le folli produzioni di Roger Corman (Dinoshark di Kevin O’Neill e Sharktopus di Declan O’Brien) e l’oramai celeberrima saga di Sharknado, prodotta dallo studio The Asylum e arrivata proprio nell’estate 2016 al suo quarto capitolo – protagonista ancora una volta Ian Ziering, lo Steve Sanders di Beverly Hills 90210.

Paradossalmente un film come Paradise Beach (nella traduzione italiana si è preferito mantenere un anglismo, ma abbandonando l’originale The Shallows, forse per la poca dimestichezza del pubblico italiano con il termine, che indica le secche, in riferimento alla bassa marea, migliore alleata della protagonista), pur guardando in direzione di un pur labile realismo, assomiglia molto di più agli ultimi titoli citati. Lo squalo che gironzola attorno alla surfista Nancy, che ha raccolto la passione per le onde dalla madre deceduta per un tumore, oltre a essere gigantesco ha anche la perseveranza e l’intelligenza dei carcarodonti volanti o mutanti di Corman & co.; lei stessa, peraltro, nonostante un numero spropositato di ferite e un sole cocente che la brucia prima di abbandonarla ai tremori della notte, rimane ben salda aggrappata al suo scoglio, pronta a escogitare le strategie più impensate per vincere la personale sfida con l’animale.
Collet-Serra, dal canto suo, ce la mette tutta per confermare la mediocrità della messa in scena rintracciabile anche nelle sue precedenti sortite dietro la macchina da presa (da La maschera di cera a Orphan fino al recente Run All Night – Una notte per sopravvivere), dimostrando un cattivo gusto che lambisce i confini del demenziale involontario, come nella sequenza dell’ubriacone che tenta di rubare gli affetti che Nancy ha lasciato incustoditi sulla spiaggia.

Ma il vero punto debole di Paradise Beach non è rintracciabile né nelle discese nel ridicolo e neppure nella raffazzonata sceneggiatura (che pure non si lascia sfuggire le occasioni per mettere in mostra le proprie debolezze, come nella sottotrama che vede il gabbiano ribattezzato Steven Seagull unico “amico” della bionda surfista, per di più in grado di riparagli l’ala ferita), quanto nella pressoché totale mancanza di ritmo. Per superare lo scoglio – è proprio il caso di dirlo – dell’isolamento di un personaggio in un luogo angusto come il cucuzzolo di un masso sperduto nell’oceano, Collet-Serra può solo ricorrere a uno schema ripetuto all’infinito, quello dei tentativi infruttuosi della giovane di evitare le fameliche attenzioni dello squalo, intervallato di quando in quando da qualche umano sprovveduto usato come carne da macello per risvegliare gli istinti sanguinari del pubblico. La computer grafica ovviamente impera, e non è neanche sfruttata nel modo migliore, e la tensione è sotto i livelli di guardia.
A questo si aggiunge un finale che travalica il buon senso trasformando Nancy in una superoina imbattibile, che trascina lo spettatore verso una risata incontrollata, e screziata di isteria. Senza contare la possibilità di leggere il film come un monito verso il pubblico statunitense, in attesa delle elezioni presidenziali di novembre: rimanete a nuotare nelle calme e pacifiche acque di casa nostra, e lasciate perdere le pericolose acque messicane. Facezie a parte, resta l’occasione per godere del fisico in bikini della Lively, ma è davvero troppo poco; anche perché viene davvero naturale tifare per lo squalo…

Info
Il trailer di Paradise Beach.
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