Il mistero Picasso

Il mistero Picasso

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Ne Il mistero Picasso l’atto creativo diventa cinema, nascendo e creandosi di fronte agli occhi del pubblico; nell’avvicinarsi a uno dei monumentali pittori del Ventesimo Secolo, Henri-Georges Clouzot mette in quadro e in scena il gesto artistico, con la tela che duplica il senso di schermo, di quadro, di perimetro dal quale evadere, senza mai evadere.

La creazione dell’arte

Uno dei più grandi pittori del Novecento ritratto nel suo studio, tra le sue tele, nel pieno della sua vita e della sua arte. La tecnica usata comporta un telo traparente e delle pitture speciali, in grado di essere viste e riprese al rovescio. L’opera d’arte si manifesta davanti agli occhi degli spettatori… [sinossi]

Il mistero Picasso ha inizio, prima ancora che compaiano i titoli di testa, nello studio del pittore. L’io narrante di Henri-Georges Clouzot afferma: “Pagheremmo qualsiasi cosa per entrare nella testa di Rimbaud mentre scriveva Le bateau ivre; per sapere cosa pensava Mozart mentre componeva La sinfonia Jupiter; per conoscere quel meccanismo segreto che guida il creatore nella sua pericolosa avventura. Grazie a Dio, ciò che è impossibile con la poesia e con la musica è realizzabile con la pittura. Per sapere cosa succede nella testa di un pittore basta seguire la sua mano”.
Basta seguire la sua mano. Aveva ragione e torto allo stesso tempo André Bazin quando scriveva, sulle pagine dei Cahiers du cinéma, che Il mistero Picasso non spiega niente; aveva indubbiamente ragione perché Clouzot, con un gesto radicale fino a quel momento mai compiuto da alcuno, non fa altro che mostrare il lavoro di Pablo Picasso in fieri, senza aggiunte posticce, senza spiegazioni per l’appunto. L’arte prende forma di fronte agli occhi dello spettatore senza che vi sia alcun filtro apparente, alcuna distanza se non quella dettata dall’immateriale, dalla pellicola, dalla riproduzione di qualcosa che non è tangibile, non si può toccare con mano. Ma Bazin aveva torto proprio per quell’affermazione finale: “basta seguire la sua mano”. Eccola la chiave di lettura, eccolo il senso, eccola seppur quasi invisibile, la spiegazione. Se è un mistero, Picasso, non lo è certo nel senso più comune e banale del termine. Non si deve intendere mistero come qualcosa di sconosciuto, di oscuro, di non penetrabile. Picasso non è escluso dalle normali capacità intuitive dello spettatore, e Clouzot ribadisce questo concetto con forza. No. Il mistero è da intendere forse nel suo significato recondito, nella sua derivazione etimologica latina. Qualcosa di intellegibile dagli iniziati. E chi sono gli iniziati? Tutti gli spettatori che non abbandoneranno la visione de Il mistero Picasso, è ovvio…

Non è difficile immaginare un nugolo di spettatori che fuggono di fronte alle ripetute creazioni di Picasso, che prendono forma sullo schermo per poi essere riviste, corrette, cancellate, sovrascritte, colorate di nero. Figure ora appena accennate ora vergate con maggior forza dalla mano del pittore. Colori che impazzano sullo schermo, accompagnati dai crescendo di una colonna sonora composta da Georges Auric, già membro del “Gruppo dei sei” [1], e collaboratore con Clouzot anche in Vite vendute e Le spie. Il mistero Picasso è respingente, costringe a prendere una posizione netta, non permette di cullarsi nella confortevole illusione che l’arte sia modellabile a proprio piacimento, adattabile, strutturata in modo tale da non creare scompiglio.
La pittura di Picasso, messa in scena in tutta la sua brutale nudità, senza consentire alcun appiglio, né presa d’aria, è un atto di rivoluzione in essere. È la creazione dal caos, e la creazione che dà vita a ulteriore caos. È la perdizione dell’arte, la sua imperscrutabilità. Clouzot avrebbe potuto ridursi a un documentario canonico: mostrare il genio al lavoro, permettere alle sue inevitabili normalità di esplicitarsi, magari attraverso l’utilizzo di dettagli, di tic, di nervosismi quotidiani, e accontentare tutti (o quasi). Quando lo fa – perché anche questo accade ne Il mistero Picasso – è solo ed esclusivamente per mettere in chiaro l’artificiosità della situazione. Picasso non è solo nel suo atelier. Con lui ci sono un regista cinematografico, una macchina da presa, un direttore della fotografia, un fonico, e il resto della pur piccola troupe.
Il mistero Picasso non finge mai di non esistere come oggetto filmico, e il cinema che ne viene sprigionato non soffre di soggezione nei confronti di un’arte millennaria come la pittura. Clouzot d’altro canto non firma una dichiarazione di estasi di fronte ai quadri di Picasso. Ne mostra la creazione, spiega al mondo esterno cosa significa il gesto, come si sviluppa, cosa ne viene generato.

Rigettando i principi cardine della didattica, eliminando quella spiegazione che per quanto dotta non potrebbe far altro che inaridire il potere dell’immagine, Clouzot compie una seconda e ben più rilevante evoluzione del concetto di “ripresa dell’arte”. La pittura, che è sempre stata letta e interpretata sotto un profilo critico partendo dalla concezione di spazio (la messa in quadro, la cornice, la prospettiva, la verticalità e l’orizzontalità), è invece dominata dal tempo: i lavori di Picasso prendono vita poco per volta, vivono il loro tempo, non sono gli idoli statici di una religione laica, non sono l’estasi di fronte alla quale si rimane senza fiato. Sono oggetti vivi, in movimento nel tempo anche se costretti in uno spazio definito, dal quale non si può e non si vuole evadere.
Clouzot filma un gioco, un gioco d’azzardo, una sfida a un’arte stratificata nei secoli che viene rivista, riposta in quadro, riportata in vita – a nuova vita – da un’altra arte, infinitamente più giovane, eppure in grado, caso più unico che raro, di coniugare l’aspetto teorico a quello puramente spettacolare. Perché Il mistero Clouzot è un appassionante crescendo di linee, che sono sempre più vive, sempre più ansiose. E poi muoiono. “Ho capito. Ricomincio tutto da capo” dice Picasso, ma un attimo dopo ha già finito. “Ho finito”. E si allontana, come gli eroi brutti sporchi e cattivi di quei noir che nessuno, o quasi nessuno, ha saputo girare come Henri-Georges Clouzot.

NOTE
Il Gruppo dei Sei fu un ristretto circolo musicale sviluppatosi a Parigi a ridosso della fine della Prima Guerra Mondiale; ne fecero parte oltre ad Auric Louis Durey, Arthur Honegger, Darius Milhaud, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre. Rigettando la struttura musicale wagneriana – anche per un rigurgito di nazionalismo post-bellico – i sei compositori si riallacciarono invece all’esperienza di Erik Satie, che sarebbe morto di lì a pochi anni, nel furoreggiare delle avanguardie. Il manifesto programmatico del gruppo fu scritto e firmato da Jean Cocteau, per il quale Auric scrisse le musiche di tutti i lavori cinematografici, da La bella e la bestia a Il testamento di Orfeo. Tra le composizioni per il cinema di Georges Auric vale la pena ricordare quantomeno A me la libertà di René Clair, Incubi notturni di Alberto Cavalcanti, Charles Crichton, Basil Dearden e Roberth Hamer, L’incredibile avventura di Mr. Holland di Charles Crichton, Moulin Rouge di John Huston, Lola Montès di Max Ophuls, Buongiorno tristezza! di Otto Preminger, e Suspense di Jack Clayton.
Info
Un trailer de Il mistero Picasso.
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