Intrigo a Berlino

Intrigo a Berlino

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Intrigo a Berlino rappresenta uno dei pochi passi falsi della carriera di Steven Soderbergh, dominato così da un calligrafismo asettico e privo di “verità”.

A Berlino…va bene?

In una Berlino ancora in procinto di uscire dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, si intrecciano i destini di statunitensi, tedeschi e russi. Il gioco, per quanto affascinante, è ovviamente mortale, come diventa palese in seguito all’omicidio del giovane autista militare Tully: c’è di mezzo un tedesco dichiarato morto, la sua consorte che ora si è data al mestiere più vecchio del mondo, e il corrispondente di guerra Jacob Gaismer… [sinossi]

Per dare alla luce il suo sedicesimo lungometraggio, Steven Soderbergh si è affidato alla memoria nostalgica di un modus operandi hollywoodiano che rese dorata l’industria cinematografica statunitense a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, prima dell’esplosione delle nouvelles vagues di mezzo mondo. Il suo The Good German (che in Italia è stato banalizzato in Intrigo a Berlino) è un omaggio agli ultimi rantoli di classicità del cinema americano, e andrebbe analizzato esclusivamente sotto questa veste.
Uno dei più prolifici tra i registi statunitensi – già in fase di post-produzione il capitolo terzo della saga incentrata sul personaggio di Daniel Ocean, è tutt’ora in lavorazione l’ambizioso progetto di dittico sulla vita di Ernesto ’Che’ Guevara –, Soderbergh stavolta sbaglia decisamente mira. Se infatti la sua intenzione era quella di accarezzare con amorevole sguardo cinefilo un approccio alla materia cinematografica oramai perso nel tempo, la realtà ci mostra un film dallo stile vezzoso e narcisista.

Non c’è nulla che possa realmente appassionare nelle vicende, incastrate in maniera quasi asettica nella didattica sceneggiatura di Paul Attanasio (che dopotutto, tolti Quiz Show e Donnie Brasco, aveva raggiunto l’apice della sua carriera con Sfera e Rivelazioni), che legano a doppio filo i personaggi creati dalla penna di Joseph Kanon; tutto procede per forza d’inerzia, spettacolo che si fa inesorabilmente meccanica, macchina automatica priva di anima.
E così ci lascia indifferente la morte di quello che sembrava il nostro “eroe”, un Tobey Maguire che non sembra in grado di gestire un personaggio dalla carica ambigua estremamente accentuata, non ci strappiamo i capelli davanti all’amore impossibile tra i “belli e sconfitti” George Clooney e Cate Blanchett, non subiamo alcun tuffo al cuore di fronte alla rivelazione finale. Tutto avanza secondo la spietata logica dell’ovvio, del già scritto: colto dal terribile demone della citazione pedissequa, Soderbergh smarrisce il sentiero di un criterio di scelta personale, merito che pure gli avevamo sempre riconosciuto anche negli episodi meno riusciti – si veda lo scarto tra questa reliquia imbellettata e il pur impreciso Schizopolis –, finendo per ritorcere la pellicola su se stessa in maniera goffa e, cosa ancor più grande, perdendo per strada qualsiasi rapporto con l’esterno.

Non è certo la veridicità storica a interessare Soderbergh, e così nessuno può (forse) aver troppo da ridire sulle notevoli libertà che il cineasta si prende nella ricostruzione di uno scenario di guerra arcinoto come quello tedesco a ridosso della metà degli anni Quaranta; anzi, a dirla tutta ci era anche sembrato interessante il discorso sulla ricreazione in toto della Germania post-bellica, con quell’aria di cartapesta che poteva diventare l’arma definitiva per palesare l’artificiosità della macchina/cinema, quel retaggio degli imbonitori e degli illusionisti dal quale troppo spesso la Settima Arte dimentica o nega fermamente di essere stata generata. E invece anche questa carta viene letteralmente sprecata, a favore di una messa in scena asettica, formalmente inappuntabile ma vuota di significato, priva di qualsivoglia sottotesto. Soderbergh porta al trionfo definitivo un cinema che si basa esclusivamente sul feticcio, senza preoccuparsi di tutto ciò che gli gravita intorno, come se fosse certo di poter bastare a sè in quanto forma d’arte; si ha dunque a che fare con un’avventura estetica totalmente priva non solo di contenuto – e già ci sarebbe da storcere il naso, visto che il cinema del quale Intrigo a Berlino pretenderebbe la discendenza aveva un solido apparato morale alle spalle, forse non completamente condivisibile ma senza dubbio palese, materiale, estremamente presente – ma anche e soprattutto di appeal narrativo. La mente vaga, e non poco, mentre sullo schermo si avvicendano i colpi di scena, i buoni si confondono con i cattivi e i personaggi si rimbalzano addosso l’un l’altro il senso di colpa insopportabile prodotto dal “male” della guerra.
Quello che rimane è una confezione lussuosa e tecnicamente inappuntabile, ma che rischia di nasconde in realtà solamente una dimostrazione di narcisismo di Soderbergh: dietro gli pseudonimi Peter Andrews per la fotografia e Mary Ann Bernard per il montaggio si cela infatti il nome del regista.

Non è la prima volta in realtà che ciò accade, ma nel caso in questione la scoperta viene in aiuto, in fin dei conti, alla nostra disamina critica; non è altro, infatti, che la definitiva consacrazione di un cinema goffamente teso verso alcuni degli episodi più alti dell’età dell’oro delle majors (Il terzo uomo, per esempio, sembra uno dei rimandi maggiormente insistiti) e in realtà costretto ad arrancare in una contemporaneità che ne svela con crudezza la falsità d’intenti, la vacuità, la fastidiosa prosopopea.
Quello che ci stupisce maggiormente è come Intrigo a Berlino arrivi a ridosso di un film scarno e sublime quale era Bubble: lì l’intero impianto faceva leva su una messa in scena ridotta all’osso, essenziale, magari a tratti quasi rozza ma straordinariamente ricca di senso e di pathos. In Intrigo a Berlino avviene l’esatto contrario, e questo passo indietro all’interno di una carriera che ci era sembrata oramai pronta a spiccare quel volo che gli auguravamo fin dall’esordio Sex, Lies, and Videotape coglie amaramente di sorpresa.

Ma dev’essere l’aria della mitteleuropa (anche se in questo caso neanche lontanamente annusata, visto che l’intero arco delle riprese si è esaurito a Los Angeles) a far impazzire Soderbergh: anche quando mise mano a quel progetto ambizioso che era Kafka (in italiano Delitti e segreti) il cineasta di Atlanta, Georgia, mise a nudo il suo lato più edonista, perdendosi in un’intricata rete di scatole cinesi finemente ricamate, per quanto dal risultato complessivo sicuramente più convincente. C’è da augurarsi che stavolta abbia imparato la lezione, perché siamo certi che Soderbergh potrebbe realmente prendere in mano l’industria statunitense e farne quel che gli pare. Considerata la sua prolificità non ci sarà da attendere neanche tanto per verificare questa profezia…

Info
Intrigo a Berlino, il trailer.
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