Wu Xia

Ambientato nella Cina del 1917, destinata nel corso di pochi decenni a mutare completamente la sua forma, Wu Xia non lesina dettagli sulla vita contadina, contribuendo a rendere credibile e realistica anche l’evoluzione più impossibile. Perché, come ogni wuxia che si rispetti, le leggi di natura sono abilmente aggirate, e (alcuni) personaggi sono in grado di cadere da muri altissimi e ricevere colpi di ascia senza avvertire la benché minima conseguenza: ma in Wu Xia anche questo aspetto acquista una propria veridicità, esattamente come i rapporti interpersonali. Presentato al Festival di Cannes 2011.

Ragione e sentimento

Nella tarda dinastia Qing, Liu Jin-Xi è un fabbricante di carta e padre di due figli che vive una vita apparentemente normale con la sua famiglia in un villaggio remoto. Tuttavia, l’arrivo di un detective rischia di distruggere tutto ciò… [sinossi]

Se esiste un genere identificativo del cinema di Hong Kong, in grado di attraversare l’intera evoluzione della Settima Arte all’interno della città-stato, quello è senz’ombra di dubbio il wuxia (o wuxiapian). Le storie di cavalieri spadaccini, edotti nelle arti marziali, erano all’ordine del giorno in Cina già negli anni Venti e Trenta; epurate dal maoismo, trovarono rifugio nella piccola colonia britannica, dove vissero alcune palingenesi straordinarie grazie ad autori del calibro di King Hu (La fanciulla cavaliere errante, Dragon Inn, Come Drink with Me) e Zhang Che (la trilogia di One-Armed Swordsman) e a loro ideali discepoli come Tsui Hark. Riscoperto a livello internazionale solo nell’ultimo decennio, il wuxia è dunque simbolo stesso del cinema cinese e hongkonghese, tanto da essere stato affrontato anche da registi solitamente distanti da approcci stilistici simili come Wong Kar-wai (Ashes of Time), Ang Lee (La tigre e il dragone), Patrick Tam (The Sword), John Woo (Last Hurrah for Chivalry, La battaglia dei tre regni, Reign of Assassins – co-diretto da Su Chao-pin).

Nessuno stupore, dunque, deve accompagnare la scoperta di Peter Ho-sun Chan (più comunemente noto come Peter Chan) dietro la macchina da presa di Wu Xia, film presentato come spettacolo di mezzanotte fuori concorso alla sessantaquattresima edizione del Festival di Cannes: tra i registi più premiati di Hong Kong, Chan non era sembrato infatti finora molto avvezzo ai film di arti marziali. Cineasta a trecentosessanta gradi, Chan è passato con disinvoltura dal dramma alla commedia, dirigendo anche musical (Perhaps Love) ed epiche storie di guerra (Warlords). Il suo personale approccio al wuxia non appare dunque come una prona accettazione delle regole implicite del genere, ma semmai come una libera reinterpretazione delle stesse. Se infatti la storia di Liu Jin-xi – interpretato dal solito imperdibile Donnie Yen, vero e proprio idolo delle folle in patria – rientra perfettamente nei codici espressivi del wuxia, con il personaggio dal passato misterioso che cerca di rifarsi una vita ma dovrà combattere una lotta senza esclusione di colpi per potersela meritare e lavare le malefatte compiute, la magniloquenza espressiva di Chan coglie spesso di sorpresa anche lo spettatore più fanatico della materia. La fotografia, opera di Jake Pollock (già apprezzato per il suo lavoro sui set di Do Over e Yang Yang di Cheng Yu-chieh, The Message di Chen Kuo-fu e Gao Qunsha, Monga di Doze Niu) apre squarci di poesia visiva di rara efficacia e potenza immaginifica.
E non si tratta in questo caso del manierismo calligrafico di molti autori di wuxia contemporanei – rientra in questa cerchia anche il pur apprezzabile Zhang Yimou di Hero e La foresta dei pugnali volanti – disposti a cedere alla forza della visione lasciando in secondo piano le esigenze narrative e contenutistiche, ma di puro e semplice potere dell’immagine.

Basterebbe anche solo la lunga sequenza di combattimento all’interno della macelleria, che occupa un quarto di film (in quanto viene riproposta da più angolazioni e con diverse letture e interpretazioni), per accorgersi di come la prassi si trasformi, nelle mani di Chan, in divertita riscrittura: pur colmo di citazioni e rimandi cinefili ai caposaldi del genere, con la presenza in scena nientedimeno che di Jimmy Wang Yu – il one-armed swordsman di Zhang Che – Wu Xia scava nella psicologia dei personaggi in modo decisamente convincente, soprattutto nell’incontro/scontro tra il raziocinio a pochi passi dal lombrosiano di Xu Bai-jiu (bravo come sempre Takeshi Kaneshiro) e il misterioso candore del protagonista. Ambientato nella Cina del 1917, destinata nel corso di pochi decenni a mutare completamente la sua forma, il film di Chan non lesina dettagli sulla vita contadina, contribuendo a rendere credibile e realistica anche l’evoluzione più impossibile. Perché, come ogni wuxia che si rispetti, le leggi di natura sono abilmente aggirate, e (alcuni) personaggi sono in grado di cadere da muri altissimi e ricevere colpi di ascia senza avvertire la benché minima conseguenza: ma in Wu Xia anche questo aspetto acquista una propria veridicità, esattamente come i rapporti interpersonali, grazie anche all’interpretazione della bellissima Wei Tang, già ammirata in Lussuria di Ang Lee e Late Autumn di Kim Tae-yong.
E quando anche l’architettura espressiva e la fabulazione più mirabolante sembrano sul punto di crollare, a risolvere il problema giunge la straordinaria coreografia di Donnie Yen. Una poesia del movimento che seduce e ammalia, senza che nessuno sappia opporvi resistenza.

Info
Il trailer originale di Wu Xia.
La scheda di Wu Xia sul sito di Cannes.
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