Un giorno devi andare

Un giorno devi andare

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Giunto al suo terzo film di finzione, Giorgio Diritti incappa con Un giorno devi andare nel primo passo falso della sua filmografia, abbandonandosi a banali speculazioni filosofico-antropologiche.

Il dio itinerante

Dolorose vicende familiari spingono Augusta, una giovane donna italiana, a mettere in discussione le certezze su cui aveva costruito la sua esistenza. Su una piccola barca e nell’immensità della natura amazzonica inizia un viaggio accompagnando suor Franca, un’amica della madre, nella sua missione presso i villaggi indios, scoprendo anche in questa terra remota i tentativi di conquista del mondo occidentale. Augusta decide così di proseguire il suo percorso lasciando la comunità italiana per andare a Manaus, dove vive in una favela. Qui, nell’incontro con la gente semplice del luogo, torna a percepire la forza atavica dell’istinto di vita, intraprendendo il “suo” viaggio fino a isolarsi nella foresta. [sinossi]

Da quando ha esordito nel lungometraggio di finzione (nel 2005, anno dell’esplosione del fenomeno Il vento fa il suo giro, tra le opere prime più coraggiose e sorprendenti del recente cinema italiano) Giorgio Diritti si è segnalato come uno dei registi più interessanti del panorama nostrano. La conferma è arrivata nel 2009 con L’uomo che verrà, personale rilettura della strage nazi-fascista di Marzabotto: le attese nei confronti dell’opera terza di Diritti si erano dunque fatte da subito molto elevate, e quando è stata resa pubblica la notizia della partecipazione di Un giorno devi andare al Sundance Film Festival di Park City, nello Utah, la stragrande maggioranza degli organi di stampa è andata in fibrillazione. Perché Diritti avrebbe rinunciato alla possibilità di confrontarsi con le kermesse europee per proporre il suo nuovo film a un pubblico statunitense? Le risposte potrebbero essere molteplici, tutte lecite e allo stesso tempo sbagliate o in ogni caso imprecise, ma ciò che appare certo è che Un giorno devi andare avrebbe avuto vita molto difficile in uno dei prosceni del Vecchio Continente.

Dopo essersi dimostrato cantore ispirato e trattenuto della vita contadina e montanara, Diritti cambia in maniera repentina indole e umore e si lancia nella messa in scena di un universo umano alla deriva, alla disperata ricerca di un senso della vita che è, per i protagonisti del film, anche una rappresentazione del rapporto tra materiale e immateriale. Già la prima inquadratura, con l’ecografia del feto proposta in sovrimpressione sull’immagine della luna, basta a palesare anche agli occhi più disattenti l’ambizione sfrenata di Giorgio Diritti, raccontare i fili nascosti che avvincono l’umanità ai legacci più o meno pretestuosi del divino. Affrontare una tematica così vasta e rischiosa sarebbe già un’operazione ai limiti dell’impossibile, ma a tutto ciò il cineasta bolognese aggiunge anche una riflessione – spesso purtroppo destinata a rimanere in superficie – sulla donna, la femminilità, la maternità come istante di congiunzione tra l’elemento umano e quello naturale.

Ancora una volta pronto a sfuggire dalle secche della lingua italiana – evitata nell’esordio con l’utilizzo dell’occitano e nell’opera seconda grazie al ricorso al dialetto emiliano – grazie a un’ambientazione esotica come quella del Brasile amazzonico, Diritti si lancia in un progetto così complesso da essere destinato ben presto ad arenarsi e a sprofondare nelle sabbie mobili della presunzione. Tra ammiccamenti alla poetica sinceramente “naturale” di Terrence Malick (l’immagine della canoa che scivola sull’acqua facendosi largo tra un fitto groviglio di erbe può essere considerata poco meno che un marchio di fabbrica non registrato), vagiti mai davvero conclusi di estetica à la Herzog e perfino vaghe reminiscenze da Glauber Rocha – che ne Il dio nero e il diavolo biondo riuscì a raccontare la diaspora di un popolo tentato dalle lusinghe della “fede” con ben altra forza e convinzione – Un giorno devi andare si abbandona a una speculazione filosofica e antropologica che non riesce purtroppo quasi mai a elevarsi dalla banalità.

La storia della disperata ma coriacea Augusta, donna che ha perso tutto (figlio, marito, famiglia, Dio) e vuole provare a ricominciare da zero lavorando con gli “ultimi” a Manaus mostra tutte le pecche di un percorso tracciato a tavolino, rinchiuso rigidamente in percorsi mentali predefiniti e in categorie standardizzate. Anche per questo l’esibita libertà della macchina da presa, attenta a cogliere le sfumature di orizzonti perduti, gli squallidi paesaggi metropolitani e le lussureggianti bellezze della foresta pluviale, sembra a sua volta artefatta, costruita con millimetrica precisione, mai davvero sincera.
Nonostante si doni anima e corpo al proprio personaggio, Jasmine Trinca non possiede il carisma attoriale per potersi confrontare con il travaglio interiore di Augusta, e non è supportata da una sceneggiatura in grado di sorreggerla durante il percorso: gli ultimi venti minuti, in cui Augusta dovrebbe definitivamente andare alla deriva per potersi infine ritrovare, vengono talmente esasperati da Diritti da sfiorare il parossismo del comico involontario, rischio già corso con le numerose metafore – più o meno esplicite – disseminate lungo le quasi due ore di durata del film.
In attesa che il futuro indichi quale strada prenderà il cinema di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare si segnala come una delle delusioni più cocenti di questi primi mesi del 2013.

Info
Il trailer di Un giorno devi andare su Youtube.
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