The Family

The Family

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Il quarantunenne Liu Shumin realizza con The Family una minimalista epopea familiare, feroce e intima. Ottima pre-apertura della 30esima edizione della Settimana Internazionale della Critica.

Vivere…riesco a vivere?

Liu e Deng sono una coppia di settantenni. Sposati ormai da mezzo secolo, vivono in una piccola città della Cina interna. La loro è una famiglia tutto sommato ordinaria: la figlia maggiore, Liqin, divorziata con un figlio adolescente, vive con loro; la seconda figlia, Xiaomin, e il figlio minore, Xujun, vivono invece in città lontane, sposati e con le loro famiglie. Xiaomin e Xujun sono anche troppo occupati per far visita ai genitori, che così decidono di mettersi in viaggio per andarli a trovare. E sarà un viaggio speciale: Liu e Deng ce la metteranno tutta per tenere unita la famiglia, nonostante la distanza. [sinossi]

Di fronte allo scardinamento socio-culturale in corso nella Cina degli ultimi vent’anni, il cinema locale ha provato a reagire in modi diversi, spesso antitetici. Inutile dire che la risposta migliore, la più profonda e la più ‘esatta’ resta la lettura che emerge dalla cinematografia di Jia Zhangke (il cui titolo più recente, Mountains May Depart, presentato pochi mesi fa a Cannes, si attesta tra le vette del suo cinema). Non meno arguta, ma forse in certo modo più classificabile è la risposta che, di fronte a questo trauma neo-capitalista, arriva invece da Diao Yinan (vincitore nel 2014 dell’Orso d’Oro con Fuochi d’artificio in pieno giorno) e da Vivian Qu (il cui Trap Street venne mostrato due anni fa all’interno della Settimana della Critica qui a Venezia). Questi ultimi tentano (e riescono) a leggere la violenza della società cinese contemporanea attraverso il filtro del noir e della rielaborazione dei meccanismi del giallo già messa in atto decenni or sono da Michelangelo Antonioni; mentre al contrario Jia Zhangke lavora soprattutto sullo spappolamento dell’immagine e dunque sulla de-formazione e – quasi – sull’esplosione dell’iconografia e dei simboli della cultura e della memoria del proprio paese.
Ora, alla 72esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, ci arriva una nuova chiave di lettura, sempre grazie alla Settimana della Critica, che come pre-apertura – per celebrare il suo trentennale – ha messo in programmazione un film denso e complesso come The Family, opera d’esordio del quarantunenne Liu Shumin.

Del resto, come i connazionali sopracitati, anche Liu ci parla direttamente della qualità del vivere del suo paese, della disgregazione sociale, della scomparsa del passato. Ma, per farlo, sceglie di lavorare sulla durata, sul tempo, sull’attesa – come in certo modo il primo Jia Zhangke, quello ad esempio di Xiao Wu e di Unknown Pleasures – dilatando fino allo spasimo i mille piccoli eventi di cui è composto il suo film, tanto da arrivare a un minutaggio decisamente impegnativo (280 minuti). In questo ritratto di famiglia fortemente debitore dell’Ozu di Viaggio a Tokyo, finisce per emergere allora un racconto dell’evenemenziale, un annullarsi nei riti quotidiani, una fatica della parola e dell’esprimersi tra consanguinei che dà il polso di un popolo sradicato, incapace di ritrovarsi. Il cibo – e soprattutto la ritualità del cucinare – resta allora l’unico legame, l’unico appiglio per tener viva la memoria… o forse si tratta anch’esso di una parvenza, del segno fantasmatico di un vivere comunitario ormai dissoltosi (e non è un caso che un pranzo non consumato sarà il controcampo della morte).
Vediamo perciò i due anziani protagonisti andare a far visita ai tre figli, ciascuno con una vita e una famiglia propria e ormai dimentichi del concetto di fratellanza. La maggiore infatti avrebbe bisogno di soldi, tanto che sua madre prova a chiedere un prestito per suo conto agli altri fratelli, con scarso successo. Nel frattempo, il padre passa le sue giornate davanti alla TV, vittima di un’inerzia sempre più inesorabile.

Tutto giocato su un minimalismo formale e su un occhio istintivamente documentaristico (le lunghe inquadrature fisse dei personaggi che si sperdono in strada tra la folla, o che – viceversa – fanno sorprendentemente capolino in campo lunghissimo, ci ricordano la consustanziale piccolezza dell’esistere), The Family si regge su degli equilibri sbalorditivi quanto estremamente fragili: quello secondo cui il giudizio autoriale resta assopito e in qualche modo nascosto nei riti quotidiani e quello che prevede la costante compresenza di fiction e documentario, della ripresa dal vero e dell’artificio. Tutto questo viene però a tratti a mancare, sia per una condanna che di tanto in tanto si fa troppo esplicita, sia per alcuni elementi formali un po’ azzardati (come un paio di dolly), sia soprattutto per una svolta narrativa nel pre-finale che chiude il tutto in una dimensione narrativo-simbolica, rischiando di occludere la potenza dello sguardo. Si tratta però in fin dei conti di dettagli, di sovrastrutture che non intaccano la potenza dell’ambiziosissima struttura, quella di un racconto semplice e lineare racchiuso in una durata quasi-abnorme. E, ben lungi dal poter essere additato come un difetto, è proprio in questa sua apparente discrasia che si coglie la potenza di The Family, nella sua capacità di lavorare sulle sfumature, nel far emergere alla lunga doppiezze ed ambiguità dei suoi protagonisti (come nel litigio tra il padre e l’unico figlio maschio), in un modo che solo un raffinato romanziere è in grado di fare. E allora, non ci sembra di sbagliare nell’identificare in Liu Shumin un nuovo importante cantore della Cina contemporanea, di quella Cina sempre meno disposta a riconoscere se stessa e a guardarsi allo specchio.

Info
The Family sul sito della SIC.
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