La stanza delle meraviglie

La stanza delle meraviglie

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Presentato in concorso al Festival di Cannes 2017, La stanza delle meraviglie di Todd Haynes insegue per due ore la meraviglia senza mai raggiungerla. Per la prima volta, il cinema di Haynes sembra incapace di penetrare sotto la superficie delle immagini, incapace di andare oltre la luccicante ma scolastica messa in scena degli anni Venti, degli anni Settanta, del cinema, dei magnifici diorami newyorkesi, della (immaginifica) lingua dei segni.

View-Master Movie Viewer. Ovvero, diorama vorrei ma non posso.

Nel 1927, una giovane ragazza scappa di casa, dal New Jersey a Manhattan, nella speranza di trovare una persona per lei molto importante. 1977, cinquant’anni dopo: un ragazzino trova un indizio sulla sua famiglia che lo porta a scappare dal Minnesota a New York. In tempi così diversi, i due intraprendono percorsi e avventure che li porteranno in strani luoghi, misteriosi, tra scoperte, silenzi, rimpianti, meraviglia e speranza… [sinossi]

Partiamo da Todd Haynes. Da Carol (2015), Io non sono qui (2007), Lontano dal paradiso (2002), Velvet Goldmine (1998), Safe (1995), Poison (1991). Un talento cristallino, visivamente portentoso. Partiamo, insomma, da attese elevatissime, vertiginose. Da un romanzo che trasuda meraviglia. Già, proprio quella meraviglia visiva e narrativa che Haynes insegue per due ore. Sembrerebbe non mancare nulla a Wonderstruck (che esce ora con il titolo italiano di La stanza delle meraviglie): il bianco e nero degli anni Venti, con le ultime dive del Muto e un passaggio epocale alle porte; il contraltare policromatico e lisergico degli anni Settanta; un nucleo familiare da ricomporre, lacrima dopo lacrima; Michelle Williams nei panni di una amorevole mamma e la musa Julianne Moore; tre fotogenici ragazzini. I diorami dell’American Museum of Natural History e l’incredibile plastico The Panorama of the City of New York del Queens Museum. Insomma, New York in tutte le sale: anni Venti, Settanta, in grande e in piccolo, da attraversare, calpestare, sorvolare, scoprire. Sognare.

A La stanza delle meraviglie non mancano note e canzoni di sicura presa – Also sprach Zarathustra nella versione fusion del pianista brasiliano Eumir Deodato, Space Oddity di David Bowie, My Blue Heaven di Gene Austin e via discorrendo – e caratteristiche tecnico-artistiche invidiabili, in primis la solita fotografia di Edward Lachman.
Tutto perfetto.
Tutto sorprendentemente didascalico, ingessato.
È lo stesso Selznick ad adattare per il grande schermo il suo romanzo La stanza delle meraviglie. Forse è questo il passo falso, la trappola che ha portato a una sorta di Hugo Cabret in tono decisamente minore – lo sceneggiatore John Logan aveva riscritto le pagine de La straordinaria invenzione di Hugo Cabret.

L’architettura narrativa di Selznick non aiuta, ripetitiva e soffocata da una musica incessante, invasiva. Ed è questa overdose musicale la cartina tornasole di una pellicola che ha un bisogno disperato di un sostegno, di mascherare in qualche modo la messa in scena ineccepibile ma scolastica e la debolezza della trama.
La stanza delle meraviglie percorre due strade, gli anni Venti di Rose (Millicent Simmonds), gli anni Settanta di Ben (Oakes Fegley). Il mistero è chiaro fin da subito, ma non è questo il problema. È l’insieme dei piani narrativi ed estetici, dei livelli di lettura così meccanici e abbozzati, a comporre un quadro sterile, quasi svogliato, tratteggiato col pilota automatico. Haynes sembra rifare se stesso senza convinzione o entusiasmo: non un film di Haynes, ma un film à la Haynes. E così New York, il sogno di una nuova vita, le riflessione sul tempo, sugli affetti, sui luoghi e sulla (loro) memoria, sulla crescita (American Museum of Natural History) e sulla scoperta (Queens Museum), sul racconto (sulle parole pronunciate e scritte, sulle immagini, sulle immagini in movimento), sono suggestioni affiancate come tessere del domino, ingredienti di una ricetta imparata a memoria.
La stanza delle meraviglie è un diorama che non si illumina mai, è un plastico che non prende vita. Space Oddity, l’acconciatura afro, quel bianco e nero, la lingua dei segni sui titoli di coda… Haynes sembra adagiarsi in questa dimensione così ingenua e family friendly, senza saper trovare quelle chiavi di lettura e quella vivacità estetico-visiva probabilmente più alla portata di autori come Spielberg o Zemeckis (sullo stesso Scorsese selznickiano avanziamo qualche dubbio).
La stanza delle meraviglie è una lanterna magica con la lente opaca. Peccato.

Info
La scheda di La stanza delle meraviglie sul sito di Cannes.
Il trailer originale di La stanza delle meraviglie.
Il trailer italiano di La stanza delle meraviglie.
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