Veleno

In Veleno, la “terra dei fuochi” viene messa sotto la lente d’ingrandimento attraverso le vicende di tre famiglie, in un approccio alla materia non sempre equilibrato ma intelligentemente privo di retorica. Film di chiusura della 32esima edizione della Settimana Internazionale della Critica.

Sinergie tossiche

Cosimo e Rosaria vivono in un paese del casertano, dove cercano di tenere il loro allevamento di bufale al riparo dalle mire delle ecomafie, che stanno avvelenando il territorio attraverso l’interramento di rifiuti tossici. Il fratello di Cosimo, Ezio (co-proprietario della tenuta) e sua moglie Adele, sarebbero invece orientati a cedere alle pressioni dei clan, rappresentate dall’ambiguo avvocato Rino Caradonna, e a vendere la loro parte di terreno. Cosimo e Rosaria, che aspettano un bambino, non si danno per vinti, ma la coppia dovrà fare i conti col potere criminale che, nei fatti, soggioga l’intero paese… [sinossi]

Quello del cosiddetto cinema “di denuncia” è da sempre sottogenere da trattare con una certa cautela. Se si resta nel ristretto ambito del cinema italiano (nel quale il filone ha una lunga e consolidata tradizione) non si può non rilevare come negli ultimi decenni ci si sia adagiati su un’estetica da piccolo schermo (nell’accezione più negativa del termine), nonché su un certo didascalismo nell’approccio, che restano frutto di un più generale appiattimento del nostro cinema su quei modelli da fiction generalista di cui ancora oggi non si riesce, del tutto, a liberarsi. In questo senso, un po’ per meriti suoi, un po’ per un’indubbia evoluzione del gusto “medio” (ivi compreso quello televisivo) un film come questo Veleno dribbla agevolmente il rischio di rientrare in questa fattispecie. Il secondo lungometraggio del napoletano Diego Olivares (il primo, I cinghiali di Portici, risale addirittura al 2003), nei suoi propositi divulgativi rispetto a una precisa problematica (l’avvelenamento della terra nei territori del sud, ad opera della criminalità organizzata) resta piuttosto asciutto, secco, privo di retorica. L’impeto di denuncia passa qui per un naturalismo minuto, che parte dalla scelta di far recitare gli attori in dialetto stretto (rendendo necessaria la sottotitolazione praticamente per tutti i dialoghi).

I toni desaturati della fotografia portano in quadro un territorio che si muove tra il nero della notte, quello che fa da sfondo alle azioni criminali della banda del boss Donato Vasile (un efficace Nando Paone in veste drammatica) e un giorno segnato dal grigio delle discariche abusive, dei vicoli di un paese già irrimediabilmente contaminato, di una convivenza forzata con compromessi (im)morali che restano profondamente radicati nel senso comune. Proprio il personaggio del protagonista Cosimo, dall’inflessibile etica resistente, si va a contrapporre alla disillusione e all’opportunismo di suo fratello Ezio, che da quella comunità cerca di ottenere il maggior beneficio possibile per poi fuggirne. In questo, la sceneggiatura delinea una credibile geografia di rapporti affettivi e familiari, la cui valenza intrinsecamente “sociale” (per il modo in cui le azioni dei personaggi hanno ricadute sui più generali equilibri di potere del territorio) sostituisce efficacemente un approccio più esplicito e didascalico alla materia. Una galleria di volti, caratteri e contrastanti pulsioni, nella quale spiccano le figure di Rosaria (a cui dà il volto una sorprendente Luisa Ranieri), moglie e futura madre non arresa, e quella di Rino Caradonna (interpretato da Salvatore Esposito) viscido avvocato che si accorgerà (troppo) tardi di come il veleno che contamina (metaforicamente e concretamente) il territorio sia ormai penetrato nella sua stessa famiglia.

Nell’alternanza tra il piano di accezione più metaforico dell’entità (invisibile quanto pervasiva) rappresentata dal titolo, e quello più strettamente fisico, sta una delle caratteristiche più interessanti, ma anche uno dei principali limiti, del film di Olivares. Mentre Ezio e la sua famiglia restano moralmente contaminati dal morbo dell’illegalità che stringe il territorio, riuscendo tuttavia a rimanerne fisicamente indenni, Cosimo paga la sua intransigenza verso il medesimo morbo con la malattia e il decadimento fisici. Tuttavia, si avverte nel film una troppo netta cesura, uno scollamento piuttosto brusco, tra una prima parte tutta incentrata sulla descrizione antropologica di un territorio (attraverso la vita di tre diverse famiglie che lo abitano) e una seconda che si concentra prevalentemente sul dramma, più intimo, di una coppia che vede approssimarsi la fine di una vita e l’inizio di un’altra. Nella seconda frazione, il tono vira bruscamente sul versante melodrammatico, efficacemente sostanziato da un Massimiliano Gallo che non arretra di fronte alla resa più esplicita della consunzione fisica, e da una Luisa Ranieri che prende su di sé il peso di gran parte della riuscita (emotiva e drammaturgica) di questo subplot; resta tuttavia, pur in un’attitudine melò sempre piuttosto controllata, e mai gratuita, la sensazione di due frammenti di film scollati, che lo script non è riuscito ad integrare al meglio.

Film essenzialmente di scrittura e d’attori, che resta forse troppo controllato sul piano della regia (penalizzata da una certa timidezza), Veleno rimane comunque un’opera interessante per come mette sotto la lente d’ingrandimento un territorio, i suoi rapporti di forza e le sue logiche di potere, attraverso lo sguardo più minuto e improntato all’analisi microsociale. La valenza antropologica dell’operazione portata avanti da Olivares, la sua efficacia d’insieme, e il suo cosciente rifiuto della retorica, riescono in parte a controbilanciare alcuni squilibri narrativi, nonché i limiti di un’estetica che, sul piano più prettamente cinematografico, resta sospesa in un’eccessiva, forse consapevole (ma non per questo meno penalizzante) tendenza al minimalismo.

Info
La scheda di Veleno sul sito della SIC.
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