Il cammino della speranza

Il cammino della speranza

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Nel mettere in scena la tragedia dell’immigrazione di un gruppo di siciliani, Il cammino della speranza di Pietro Germi è un film che si mostra – a quasi settant’anni dalla sua realizzazione – di un’attualità stringente e dolorosa. A I Mille Occhi 2017, per le corrispondenze di cineasti italiani.

Era solo un mal di vivere

Una zolfatara nel sud della Sicilia chiude. Tutti gli uomini del paese lì impiegati si trovano costretti a interrompere lo sciopero della fame che avevano messo in piedi. Senza più lavoro e senza più niente che li tenga legati alla loro terra, decidono di emigrare in Francia. Partono in blocco, ma devono viaggiare nascosti perché è illegare espatriare… [sinossi]

Per una volta ci pare giusto aderire a uno dei più vieti commenti in uso per film che si ritiene abbiano un valore pedagogico: Il cammino della speranza, opera di Pietro Germi del 1950, andrebbe fatto vedere nelle scuole. Difficile trovare un titolo più adatto di questo visto che, nel raccontare la tragica – e assurdamente illegale – marcia di un gruppo di siciliani verso la Francia, vi traspare una attualità stringente e dolorosissima. Quei siciliani di ieri sono gli africani di oggi, costretti a spendere tutti i loro soldi per un viaggio della speranza infinito e rischioso, continuamente esposti al timore di dover essere rispediti nel loro paese a morire di fame o di guerre, criminalizzati e arrestati solo perché sperano in un futuro migliore. Vedere oggi Il cammino della speranza, proiettato in questi giorni a Trieste per la 16esima edizione de I Mille Occhi, fa venire i brividi, induce alla commozione e insieme alla vergogna di noi stessi e del nostro egoismo.

La forza del film di Germi la si trova però innanzitutto nell’efficacia con cui mette in scena il racconto, a partire dalla secchezza e dalla durezza dell’incipit, quasi muto: da un lato il tipico bianco accecante e dal tempo sospeso dei paesini siciliani, dall’altro il buio e la claustrofobia della zolfatara in cui gli uomini stanno facendo lo sciopero della fame. Qualcuno scende per cercare di convincerli ad arrendersi e Germi ne approfitta per fare un carrello in avanti a scoprire i volti e i corpi spossati e sudati al buio; un momento di tale potenza espressiva da far gelare il sangue nelle vene. Questi uomini, che saranno poi i protagonisti della vicenda, prendono forma e vita dalla madre terra, una terra che però non li vuole più e li espelle dal suo ventre inospitale.
Il neorealismo di Germi – che in un film come La gelosia, sempre mostrato in questi giorni a Mille Occhi, era relegato sullo sfondo – non ha la stessa impronta rosselliniana della ‘natura viva e pulsante’, non è dolorosamente estetizzante come il Visconti di La terra trema, né raggiunge la grandezza poetico-patetico-umanista di De Sica e Zavattini. È un neorealismo che è accomunabile in parte a quello di Giuseppe De Santis, e in parte mescola quegli stilemi con il genere, soprattutto il noir.
A voler esagerare, infatti, si potrebbe definire Il cammino della speranza come una versione neorealista del di poco precedente Fuga in Francia di Mario Soldati, in cui lo stesso Germi era uno degli interpreti. E se lì si metteva in scena la fuga di un colpevole – un criminale fascista – qui invece si racconta l’esodo di un manipolo di innocenti.
Ma, al di là di altre possibili confluenze con il film di Soldati (si pensi, ad esempio, a tutta la parte finale sulle Alpi), ciò che interessa sottolineare con questa similitudine è il continuo rimescolamento e arricchimento di saperi e di esperienze che passavano da un cineasta all’altro: non è un caso, d’altronde, che tra le firme della sceneggiatura di Il cammino della speranza vi figuri anche Federico Fellini, la cui prima parte della carriera da regista sarà molto virata sui toni del melodramma post-neorealistico.
Quel che ne conseguiva dunque era un mondo cinematografico comunicante, in cui l’uno poteva approfondire la strada intrapresa da un altro, o poteva anche negarla, ma mai ignorarla. Come invece accade nel cinema italiano odierno.

Tutto appare in Il cammino della speranza inesorabile e fatale, come il destino che controlla con severità il percorso dei personaggi: l’arresto alla stazione Termini a Roma (sequenza che ha oggi anche un forte sapore testimoniale, visto che si vede il nuovo passaggio appena finito), il conflitto al nord con i contadini in sciopero che spinge i nostri siciliani a fuggire ancora, la deriva per le strade di Roma, l’arrendevolezza di alcuni e la tenacia di altri, la morte del povero ingegnere tra le nevi, la solidarietà tra popolani – fortissima ma anche contrastata.
E, insieme a questo, i ritratti dei personaggi – ciascuno perfetto nella sua semplicità e schiettezza, a partire dal protagonista Raf Vallone, eroe positivo d’altri tempi, onesto e virile, l’unico che può tenere il gruppo unito, anche perché è l’unico che vuole riaccogliere la reietta del paese.
E, poi, come già detto, quel finale di speranza sulla neve, il cui altruismo di confine non può non ricordare il finale di La grande illusione di Renoir. Quella “grande illusione”, ecco. Le parole dello stesso Germi, che – in maniera anomala – irrompono in voice over nel finale di Il cammino della speranza e che si fanno accorato appello all’umanità tutta, potrebbero avere il sapore di un ingenuo afflato solidaristico, ma allo stesso tempo si connotano di sincero dolore, di autentico trasporto, e non possono che indurre alla commozione verso quel che saremmo potuti essere – un paese e un cinema migliori – e non siamo più stati.

Info
La pagina Wikipedia de Il cammino della speranza.
Il sito de I Mille Occhi.
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