La mélodie

La mélodie

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Con La mélodie, Rachid Hami dirige un film meno retorico e declamatorio di quanto sarebbe stato lecito attendersi, ma la voglia di asciugare i toni si traduce in eccessiva linearità e assenza di personalità.

Risonanze mancate

Simon, musicista disilluso e scontroso, giunge in una scuola alle porte di Parigi per dare lezioni di violino, in una classe composta perlopiù da studenti poveri e figli di immigrati. Tra di loro c’è Arnold, studente timido che scopre di avere una forte predisposizione per la musica. Dopo i primi scontri con la classe, che mal tollera i suoi metodi rigidi, Simon riesce a trasmettere ai ragazzi la sua passione, trovando in particolare in Arnold un autentico pupillo… [sinossi]

La locandina di La mélodie, con l’esplicita immagine di Kad Merad e del giovanissimo Zakaria-Tayeb Lazab intenti a suonare il violino su un tetto parigino, con i palazzi della capitale francese (e la Torre Eiffel) sullo sfondo, è quasi una dichiarazione di intenti per il film di Rachid Hami. Il giovane regista francese, qui al suo esordio nel lungometraggio, non cerca d’altronde, neanche per un attimo, di barare, o di presentare il suo materiale per qualcosa di diverso da quello che è: un canovaccio già abbondantemente sperimentato, con l’insegnante disilluso e solitario che entra in contatto con un gruppo di ragazzi difficili, un contatto che finirà prevedibilmente per aiutare entrambe le parti. La musica, espressione primaria e più immediata di quella passione che viene faticosamente (ri)svegliata in entrambi i terminali, sarà il punto di incontro e l’elemento principale di scambio per accompagnare e favorire l’avvicinamento dei due mondi. Non c’è nulla che non ci si aspetti, nel film di Hami, e anzi il soggetto del film, col suo alto potenziale retorico, poteva lasciar facilmente presagire un livello di melassa e declamazione emotiva che fortunatamente non ritroviamo. L’approccio al soggetto, per quanto prevedibile, è invero piuttosto asciutto.

Smarcandosi dalla tentazione (sempre presente quando ci si approccia a opere come questa) di fare dell’esercizio critico un esercizio cinico, confondendo la stereotipizzazione del materiale di base con la qualità del suo trattamento, di La mélodie va evidenziata proprio, innanzitutto, l’attenzione nell’evitare i voli pindarici, gli eccessi esibiti di retorica, la ricerca (se coronata o meno da successo, questo è ovviamente altro discorso) di un costante appiglio con la realtà e il contesto sociale rappresentati. La concezione del personaggio del musicista/insegnante, in questo senso, e la stessa scelta (molto indovinata) del suo interprete, favoriscono un approccio per quanto possibile all’insegna dell’understatement: il personaggio di Daoud ha il volto impassibile e (volutamente) poco espressivo dell’artista poco avvezzo ai contatti sociali, ma anche all’espressione emotiva diretta. La stessa gestione, da parte della sceneggiatura, della sua biografia, coi pochi cenni al suo background, si rivela in questo senso funzionale alla sua resa. Analogamente, il film evita di calcare la mano (ed è un bene) sul background sociale problematico della classe, lasciando che in qualche modo questo emerga in modo naturale dai comportamenti dei ragazzi, dal loro modo di interagire con l’ambiente, dai pochi scorci di vita familiare che vengono messi in scena.

Più che di intenti (in sé non disprezzabili) quello del film di Rachid Hami è un problema di capacità di gestione narrativa del materiale, nonché di efficacia della sua traduzione in immagini. Il ricercato minimalismo della regia, solo a tratti interrotto da alcune immagini dal forte contenuto lirico (le esercitazioni del giovane protagonista sul tetto, poi riprese dalla locandina) o comunque rivelanti un gusto figurativo da tenere d’occhio (alcuni pregevoli scorci notturni della capitale francese) si traduce in una timidezza che evita di interloquire direttamente con lo spettatore, anche laddove la storia, probabilmente, lo richiederebbe. L’evoluzione del rapporto tra insegnante e allievi è piuttosto meccanica, con i principali punti di svolta narrativi (il confronto/scontro tra il protagonista e i genitori del ragazzo più problematico, il conflitto interiore dell’insegnante quando gli viene offerto un altro lavoro) che non vengono evidenziati dalla regia con la sufficiente nitidezza. Parte dei problemi di La mélodie deriva anche da una sceneggiatura che si sfilaccia in alcune delle sue sottotrame, lasciandone irrisolte alcune (la parte relativa al padre del giovane Samir) e gettandone nella storia, frettolosamente e in modo poco funzionale, altre (il rapporto del musicista con sua figlia). In questo senso, il film sembra voler evitare (sacrificando anche suggestioni importanti) di abbracciare toni esplicitamente melò: scelta dovuta in parte a limiti intrinseci di sceneggiatura, in parte, forse, alla paura di non saperli padroneggiare adeguatamente.

Così, La mélodie finisce per puntare tutto (come d’altronde molti prodotti analoghi) sulla rappresentazione del concerto finale, culmine piuttosto prevedibile di un climax, unica, per quanto ampiamente anticipabile, “scossa” a un copione che per il resto sembra immobilizzato nella sua eccessiva linearità. La voglia, comprensibile, di asciugare il materiale di partenza e di tenere sotto controllo gli eccessi emotivi della storia, ha finito per evidenziare ancor maggiormente (per quanto sembri un paradosso) i suoi limiti di partenza: resta comunque la buona prova d’insieme del cast, oltre a una capacità registica da rivedere, magari con un soggetto meno convenzionale, e contemporaneamente meno “imbrigliato” dalla paura di osare.

Info
Il trailer di La mélodie.
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