Oro verde – C’era una volta in Colombia

Oro verde – C’era una volta in Colombia

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Avvincente, appassionante, potente, ambizioso. Oro verde – C’era una volta in Colombia di Ciro Guerra e Cristina Gallego sposa l’approccio para-antropologico a un’ampia stratificazione verso riflessioni politiche e cinema di genere. Alla Quinzaine des Réalisateurs.

… che al mercato mio padre comprò

Colombia del Nord, 1968. In una comunità di etnia wayùu il giovane Rapayet vorrebbe sposarsi con una giovane appena entrata nella vita sociale. Tuttavia l’uomo deve procurarsi una dote cospicua e per questo si avvia in cerca di animali con un amico fraterno. Lungo il viaggio i due scoprono la commerciabilità della marijuana locale, oggetto d’interesse di alcuni americani di passaggio nella zona. Di lì si snoda sull’arco di 12 anni il racconto di una progressiva escalation di violenza intorno all’inaspettata “scoperta dell’oro”… [sinossi]

Cogliere il momento in cui l’innocenza si tramuta in calcolo, l’istinto alla vita e la sua difesa tramite riti ancestrali scoprono l’interesse privato, la prevaricazione assurge a sistema economico aprendosi al “mercato”. In sostanza, quando la collettività si tramuta in individuo. Pájaros de verano di Ciro Guerra e Cristina Gallego (che in Italia diventa Oro verde – C’era una volta in Colombia) si presenta innanzitutto come un’opera fortemente stratificata, altamente ambiziosa e capace di rispondere più o meno a tutte le ambizioni che si prefigge. L’obiettivo è quello dell’affresco antropologico, nel procedere del racconto sempre più semplificato nelle sue componenti, che si trasforma a poco a poco in stupefacente rilettura del cinema di genere, capace di assommare in sé riflessioni politico-culturali in una scala sempre più ampia di portati e significanze. Con la vastità narrativa di una saga appassionante, che riaggiorna i modelli della tragedia classica a una seminale ricerca antropologica senza trascurare derivazioni dal cinema di genere, passo dopo passo Guerra e Gallego compongono un’opera polifonica sconcertante e intelligente nel rileggere varie modalità cinematografiche in un unico e coerente progetto filmico.

Si snoda su 12 anni, tra il 1968 e il 1980, il racconto dei destini di un clan colombiano di etnia Wayùu di stanza nel nord del paese, che esordisce nel film tra riti d’iniziazione, promesse di matrimonio e doti da raccogliere per potersi conquistare la futura moglie. Ma in quella Colombia, dove l’antieroe Rapayet si pone in marcia per mettere insieme la dote in compagnia di un amico fraterno, c’è un’altra merce destinata ad avere un più sicuro e solido mercato: la marijuana, adocchiata da un primo segnale di alterità che si manifesta nel paesaggio sotto forma di hippies americani (i Peace Corps statunitensi che a suo tempo furono accusati di insegnare in realtà ai contadini colombiani come coltivare e commercializzare i narcotici). E c’è anche una precisa propaganda portata da questi stranieri: opporsi al comunismo. Perché quell’erba deve tramutarsi in merce, secondo un’idea deviata di scambio capitalistico.
Oro verde – C’era una volta in Colombia registra così la lenta e inesorabile invasione che il mondo “altro” compie nei confronti di una comunità chiusa in sé, isolata in riti ancestrali e modelli di cosiddetta vita premoderna. Così, dopo qualche iniziale incertezza Rapayet si apre alla trattativa con gli americani, il piccolo mercato si tramuta in grande scambio, il denaro e il miraggio di un benessere identificato in modelli lontani attraggono nel loro ineluttabile fascino, travolgendo tutti. E intanto gli anni passano, le generazioni si succedono, mentre la violenza implicita nel concetto occidentale di mercato devia e deforma le coscienze. A poco a poco, Oro verde – C’era una volta in Colombia si trasforma in saga, noir, western, costeggiando il cinema di genere pur nella salda adesione al proprio orizzonte culturale e non cedendo un centimetro alla superficialità d’approccio. Il discorso di Guerra e Gallego si conserva esplicitamente politico, svolto secondo spietati procedimenti di causa/effetto inquadrati in un secco determinismo socio-economico. Il mercato, specie se identificato nella sua versione deviata dell’attività criminosa, spacca, divide, allontana, mette uno contro l’altro, spinge a rompere vincoli ancestrali, opera per la distruzione sotto l’apparente alibi della costruzione.

Certo, in un contesto di questo tipo a poco a poco la fedeltà al dato antropologico cede il passo magari al colore locale, e all’emozionante incipit, fatto di canti, balli e virtuosismi di ripresa, seguono citazioni più scolastiche e superficiali dei riti sui quali si fonda la cultura narrata. In pratica, il rito diventa motore d’azione, funzione narrativa, andando incontro a un mutamento formale che sembra ripercorrere e duplicare il percorso di corruzione morale narrato dal film. Si corrompono e vanno incontro a estinzione un’intera comunità e la sua cultura, e contestualmente si corrompe pure la rappresentazione del rito, che è ridotto poco per volta a strumento funzionale di racconto. Così come risulta duplicato il concetto di clan, al quale intelligentemente Guerra e Gallego riconducono le origini della vendetta interna e le contestuali ricadute nel moderno concetto di clan criminale (tesi pure ambigua e azzardata, ma consequenziale nella sua logica). In pratica, dalla spontaneità si passa alla sistematizzazione, dalla libera espressione alla razionale funzione.
Così, seguendo la struttura di una tragedia sapientemente allestita in cinque atti ben distinti, Oro verde – C’era una volta in Colombia si delinea come una sorta di saga padrinesca in ambito etnico con piena filologia rispetto all’uso della lingua wayùu, dove niente può opporsi alla disfatta culturale davanti a modelli che s’impongono con la loro capacità di solleticare bassi istinti. Guerra e Gallego squadernano un’ammirevole sapienza di messinscena, che non disdegna sorprendenti uscite verso il conclamato cinema di genere (vi è posto pure per un “Mexican standout” di lunga tradizione, che di prima impressione ricorda le riletture tarantiniane) mantenendo però una salda e determinata significazione. Più volte interviene anche la gelida messincena di grottesche iperboli (quella bianca villa che d’improvviso si staglia, geometrica nel disegno, nell’incoerente paesaggio brullo; i pacchi di marijuana che si moltiplicano su scala esponenziale come i velivoli incaricati del loro trasporto), mentre i rappresentanti di un’antica cultura minoritaria vanno incontro a una bizzarra e stridente musealizzazione – la loro collocazione negli interni della villa. In ultima analisi, quel che viene scoperto dalla comunità wayùu protagonista è la sistematizzazione della violenza, che da garante implicito della stabilità di una cultura si tramuta in esplicito atto economico, del tutto sintonico a un nuovo modello di vita basato sulla prevaricazione prodotta in serie. E non è un caso se il salto decisivo verso la scoperta della gratuita umiliazione avvenga per via di uno sciroccato rappresentante della nuova generazione. Una volta innescato il tritacarne, la violenza genera violenza, la sete di potere fa scoprire il piacere distorto del dominio sugli altri. Di lì al suicidio eterodiretto di un’intera cultura non vi è che un passo.

Il discorso di Guerra e Gallego è insomma chiaro ed esplicito, e non lascia spazio a molte interpretazioni alternative. Tuttavia la coppia di autori evita il rischio del rigido film a tesi rifrangendo il racconto sulle strutture assolute della saga e della tragedia. Raccontando cioè una precisa tragedia storica, colta agli albori di un futuro e fiorente regno del narcotraffico, ma collocata nel panorama della tragedia universale dell’innocenza perduta. Avvincente, appassionante, potente. Si vede, e rimane la voglia di rivederlo subito. E non è poco.

Info
La scheda di Pájaros de verano sul sito della Quinzaine.
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