Sotto il vestito niente

Sotto il vestito niente

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Al crocevia tra il cinema di De Palma, il giallo italiano di lunga tradizione e uno sguardo rapidamente sociologico, Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina si riconferma oggi tra le opere migliori dell’autore romano, prematuramente scomparso pochi giorni fa.

Il calcolo della probabile improbabilità

Bob Crane è un ranger che lavora nel Wyoming nel parco di Yellowstone. La sua gemella Jessica è una giovane fotomodella che ha tentato la fortuna in Italia, a Milano. Convinto da una percezione telepatica tra gemelli che sua sorella sia stata uccisa, Bob parte alla volta di Milano e scopre che Jessica è scomparsa dalla sua stanza d’albergo senza lasciare alcuna traccia, nemmeno del suo eventuale omicidio. Successivamente però altre due modelle vengono uccise, e tutto sembra ruotare intorno a un pugno di misteriosi diamanti che accomunano le varie vittime… [sinossi]

«Mi hanno sempre fatto impressione le salse color sangue». Durante un pranzo a un fast-food milanese, ultima invasione anni Ottanta dagli Stati Uniti all’Italia, l’assennato commissario Danesi di Donald Pleasence ammette tale senso di rifiuto per il ketchup, che nel suo sbuzzarsi dalla bottiglietta sopra agli hamburger ricorda liquidi ematici di natura umana. È una sorta di dichiarazione teorica per Sotto il vestito niente (1985), buon successo di pubblico di Carlo Vanzina all’esatta metà degli anni Ottanta.
Mettere in bocca a uno dei personaggi una battuta ben precisa riguardo alla finzione di realtà ottenibile tramite liquidi e fluidi sostitutivi del sangue si riconverte in riflessione sugli strumenti della riproduzione, per un film che fa del riutilizzo di materiale già usato la sua chiave probabilmente più decisiva in ambito estetico.

Sotto il vestito niente nasce infatti ispirato praticamente solo nel titolo a un romanzo firmato Marco Parma, alias Paolo Pietroni, giornalista e direttore di pubblicazioni periodiche. Divorando, digerendo e rimettendo in scena materiali finzionali i più disparati, Carlo Vanzina, con il consueto ausilio del fratello Enrico sceneggiatore e stavolta il decisivo supporto di Franco Ferrini allo script, allestisce un’operazione ai limiti della pop art, in cui ripetizione, serializzazione, fagocitazione e riespressione di materiali preesistenti denunciano un’intenzione pressoché estetizzante.
Il titolo viene da un romanzo di successo, riproposto giusto per cavalcarlo, la trama riprende vagamente ambienti e umori del caso Terry Broome-Francesco D’Alessio, omicidio che aveva sconvolto la Milano da bere poco tempo prima, mentre le scelte stilistiche sono fortemente debitrici del cinema coevo e pregresso di Brian De Palma.
Sullo sfondo resta l’ormai lunga tradizione del giallo italiano, evocato come patrimonio comune della fruizione spettatoriale di casa nostra (e non solo), da reminiscenze di Mario Bava al più recente Dario Argento. A ben vedere, l’elemento autoctono è probabilmente il meno importante. Viene da pensare a Dario Argento solo per una superficiale comunanza di genere, per la struttura whodunit e per la soluzione dell’intreccio nel finale (questo sì, in perfetta linea con la lettura italiana anni Settanta del giallo) che evoca dimensioni psicopatologiche, malate e ossessive. Ma per il resto Carlo Vanzina omaggia scopertamente il cinema depalmiano, restando legato in modo così stringente all’idea del riutilizzo da rifarsi platealmente a un’opera di De Palma apparsa nelle sale di tutto il mondo appena pochi mesi prima, Omicidio a luci rosse (1984). Il debito è enorme e evidente, dall’idea di giallo costruito sulla messa in crisi degli strumenti del vedere (in De Palma una finestra fisica, in Vanzina una finestra “mentale” dovuta alla telepatia) a vere e proprie citazioni visive – la donna esibizionista del tutto gratuita nella finestra dirimpetto alla stanza d’albergo del Bob Crane protagonista. Per non parlare poi della diretta rievocazione del gigantesco trapano elettrico come arma omicida, e del commento musicale di Pino Donaggio che si autocita a pochi mesi di distanza riciclando, appena variato, il tema principale di Omicidio a luci rosse.

Dal De Palma di Fury (1978) forse i Vanzina e Ferrini ricavano pure la traccia narrativa riservata alla telepatia. Al tempo c’è chi parlò di operazione ai limiti del plagio, vista anche la breve cesura temporale intercorsa tra le due opere. Ma d’altra parte la sostanza narrativa dell’opera vanziniana si discosta fortemente dal modello depalmiano, così come Sotto il vestito niente si delinea semmai come prodotto finale di un palinsesto pressoché infinito di cinema pregresso, dove oltretutto il ruolo ricoperto da De Palma come modello diretto moltiplica esponenzialmente lo specchio finzionale. I Vanzina s’ispirano infatti a un autore che già di per sé ha fatto dell’estetizzante divoramento metafilmico la sua marca autoriale più spiccata. Dietro a De Palma fluttua Hitchcock, e decenni di storia del cinema del brivido riletti tramite un occhio teorico e consapevole. Per cui Sotto il vestito niente, nel suo piccolo, viene semmai ultimo in una catena infinita di rifrazioni, dove alla riflessione metafilmica depalmiana si sostituisce il divoramento intensivo in un contesto di cinema industriale. Il citazionismo facile si fa scoperto pure in alcuni giochetti sui nomi, a cominciare dal protagonista Bob Crane, dotato di un cognome che rimanda alla Marion Crane di Psyco (1960, Alfred Hitchcock).

Eppure, il tanto dibattuto Carlo Vanzina che pochi giorni fa ci ha lasciato dimostra in questo film di sapersi destreggiare notevolmente con la gestione della suspense e con le relative risorse della macchina da presa, e fa rimpiangere che non abbia poi compiuto qualche altro deciso tentativo in questa direzione nel prosieguo della sua carriera (Squillo, 1996, sarà molto più deludente, così come il sequel-reboot Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata, 2011).
Sotto il vestito niente sarà pure una copia della copia della copia, ma sul set si muoveva e prendeva decisioni Carlo Vanzina, nessun altro al suo posto, per cui a fronte di tutte le imitazioni possibili la riuscita del film resta comunque sua. Eredità mista tra giallo italiano e cinema depalmiano appare invece la scoperta disinvoltura nei confronti della logica narrativa, che qui abbandona spesso e volentieri la catena razionale degli eventi per concentrarsi sul gusto autoriflessivo della messinscena, tanto che anche in questo caso, come avemmo già modo di dire riguardo a diverse opere di De Palma, il cinema riesce ad affascinarci e ingannarci tramite i suoi precipui strumenti, permettendo a chi vede di dimenticare la logica, di accettare l’inaccettabile, con qualche punta di sfida verso il conclamato improbabile – mai come stavolta, nel caso dell’omicidio di Margaux, la mano dell’assassino non può essere guantata di nera pelle.
Nelle sequenze più riuscite Sotto il vestito niente sembra anche sposare il meccanismo ironico del cinema depalmiano perseguito attraverso l’eccesso. Basti pensare a quelle forbici omicide, gigantesche nel loro apparire in scena, sproporzionate rispetto alla realtà e pure rispetto alle necessità narrative. Oppure alla sequenza dell’omicidio di Carrie; nella sua corsa nella notte di Milano verso l’Hotel Scala più volte Carrie tira la risata, visto il rapido susseguirsi di contrattempi ai quali la ragazza va incontro. Lo stesso accade poi nella sua camera d’albergo, dove uno dei più abusati escamotage del brivido (le scarpe abbandonate che, da un punto di vista ribassato o limitato, sembrano calzate da qualcuno nel buio) è enfatizzato dagli sguardi di Carrie, e soprattutto dall’utilizzo della musica. Sta proprio qui, nell’utilizzo della musica, offerta da una gran bella partitura di Donaggio con echi herrmanniani, uno degli strumenti più sfruttati da Vanzina nel perseguimento dell’ironia.
In Sotto il vestito niente gli interventi musicali costituiscono il primario elemento di enfasi e distanza, e talvolta risultano anzi eccessivi rispetto all’immagine. Nell’ordine invece della suspense ben calibrata fuori da giochi di eccesso, resta memorabile la sequenza della sfilata di Moschino davanti alla Stazione Centrale di Milano, dove di nuovo la musica (stavolta I Am What I Am di Gloria Gaynor e One Night In Bangkok di Murray Head) fa da contrappunto al montare dell’angoscia nel personaggio di Margaux, che conclude la sua passerella correndo verso i camerini e rompendo quindi drammaticamente le convenzioni di messinscena di un défilé. Non ultimo, l’uso della macchina da presa di Vanzina è spesso raffinato, affidato a continui e sinuosi movimenti, talvolta semicircolari, adottati con sapienza espressiva. Uno per tutti, quella breve panoramica a destra che in prefinale rivela la nuca di Jessica. E il gran finale è davvero ben studiato e realizzato nei suoi tempi e nelle sue sospensioni interrotte da tuffi al cuore e accensioni musicali.

Se insomma di divoramento si tratta, siamo comunque dalle parti di un divoramento consapevole e soprattutto competente, che lascia davvero grandi curiosità su quanto avrebbe potuto fare Vanzina se avesse ritentato più spesso strade di questo tipo.
Vanzina rende poi originale tale rilettura tramite un contributo che è farina del suo sacco: uno sguardo, superficiale quanto si vuole, che vuol essere anche sociale – e a De Palma o Argento, e pure a Hitchcock, del sociale non gliene può fregare di meno. La scelta della moda milanese anni Ottanta non è infatti casuale, né soltanto una coerente adesione a un universo che ben si sposi all’idea di un giallo elegante e lievemente erotico, dove vittime finiscano giovani donne colme di fascino. È una scelta in qualche modo “morale” (o più probabilmente moraleggiante), diretta all’evocazione di un universo umano pressoché smaterializzato. In una sceneggiatura decisamente buona, risuonano almeno due battute significative in tale direzione, anche tra le più ricordate del film. «Ricorda fotomodella che tu sei fatta di carta e non di carne». «Una modella, un corpo, un volto, un po’ di trucco, un bel vestito… e sotto il vestito niente».
Al di là della riflessione immediata sul ruolo immateriale della modella, di cui il pubblico non desidera altro che l’immagine riducendola a entità bidimensionale, desiderata per il corpo e paradossalmente scarnificata proprio nella sua essenza corporea, Vanzina evoca in realtà un più ampio orizzonte sociale indagato tramite rapide semplificazioni ma inquadrato con sguardo intelligente.
Dal gioielliere playboy Giorgio Zanoni che organizza festini erotici a base di cocaina con annesse roulette russe (bizzarra e interessante, tra l’altro, la scelta di girare il flashback della nottata-chiave in un bianco e nero virato seppia), a misteriosi fotografi giapponesi, a una rassegna di splendide modelle venute da ogni parte del mondo, Vanzina tratteggia un universo fatto di corruzione morale ma soprattutto di immagini patinate, del tutto votate all’enfasi dell’aspetto esteriore. Non ci pare che Vanzina subisca poi il fascino di questo mondo, con quell’atteggiamento ambiguo che a volte gli è stato contestato. Non si tratta nemmeno di sguardo aggressivamente critico, bensì somiglia di più a una sorta di misurata registrazione, che utilizza sapientemente gli strumenti del cinema di genere per enfatizzare l’ambiguità di un’epoca e di un contesto morale. Per il buon peso, trova posto anche il più classico dei percorsi di corruzione dalla semplicità dei monti americani alla devianza dell’alta moda. Sia chiaro, si tratta di tiepidi pruriti sociali inscritti in una preminente struttura di genere, nulla più. Nulla che giustifichi la fuga in massa di tutti gli stilisti più in voga all’epoca, i quali escluso Moschino non vollero partecipare in alcun modo alla realizzazione del film, spaventati dall’immagine del mondo della moda che ne sarebbe uscita. In questa luce Sotto il vestito niente sembra anche una prova generale per quell’affresco assai più ambizioso, ma anche molto meno riuscito, che sarà Via Montenapoleone (1987), realizzato con un intento più dichiarato di facile sociologia, sostanzialmente irrobustita da una selva di luoghi comuni.

In un orizzonte espressivo così intimamente legato ai valori dell’immagine e della messinscena, si rivelano sorprendentemente funzionali anche le scelte degli attori. V’è da registrare un certo coraggio da parte di Vanzina, poiché fatta eccezione per il grande veterano Donald Pleasence non si rileva un solo attore famoso all’epoca delle riprese – come del resto molti di loro faranno poco altro dopo aver partecipato a questo film. Scelti solo e soltanto per la loro apparenza fisica, pescando anche tra vere modelle del tempo, i vari Tom Schanley e Renée Simonsen sono convocati a rappresentare la superficie di un’epoca (che probabilmente si traduce pure in sostanza di un’epoca), la loro forma esteriore, ritradotta in colpa da espiare tramite i punitivi omicidi di un serial killer. Per l’appunto, pop art, o operazione postmoderna. Se la pop art si proponeva come una sorta di nuovo realismo, capace di dare conto artisticamente di un nuovo mondo bisognoso di un linguaggio “naturalistico” in linea con le sue nuove forme, così Vanzina aderisce a un contesto mutato, acquisendone le forme e i volti, sposandone gli elementi visivi e pure gli annessi riferimenti cinematografici.
Il risultato, all’opposto, è un film che mai vuol essere vero, che anzi si allontana da qualsiasi specificità italiana scegliendo un orizzonte espressivo volutamente (e volenterosamente) internazionale.
Resta solo un grande peccato: l’esilità dell’insieme, una certa mancanza di coraggio nel rompere le righe – giusto una patonza in macrodettaglio, quasi subliminale e stordente nel suo brevissimo apparire, protagonista di un ingenuo e moraleggiante attacco tra inquadrature ai limiti di un ideologico montaggio parallelo. Con un materiale narrativo così stimolante si aprivano grandi possibilità espressive, ma Vanzina tiene su tutto la briglia corta, a cominciare dalla sostanza prettamente narrativa. Il giallo è breve e di corto respiro, la mostrazione della violenza si avvale di una buona suspense preparatoria ma non si lancia mai in eccessi sanguinosi (a conti fatti, gli omicidi effettivamente messi in scena sono due), il quadro sociale ha buone basi ma è estremamente rapido. A ben vedere, nel Vanzina migliore, quello che a nostro avviso si chiude grosso modo con la fine degli anni Ottanta, è un tratto che ricorre più volte anche in altri generi.
Sapore di mare (1983) e Vacanze di Natale (1983) sono buone commedie, ma scontano la stessa brevità di respiro, quasi una precisa volontà di non entrare mai nel problematico, o più semplicemente un chiaro rifiuto di dare maggiore aria e gioco alle proprie linee narrative. Sono film piccoli, in fondo, quelli realizzati dal Vanzina più apprezzabile nel cuore degli anni Ottanta. Di grande successo, ma piccoli, quasi timidi. Sotto il vestito niente rientra in questo gruppo. Ben fatto, affascinante, intelligente. Eppure quel respiro in più difetta sempre. Eppure, rivederlo è sempre un piacere.

Info
La pagina Wikipedia dedicata a Sotto il vestito niente.
La scheda di Sotto il vestito niente sul sito di CG Entertainment.
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