Un peuple et son roi

Un peuple et son roi

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Pierre Schoeller torna a dirigere un lungometraggio a sette anni di distanza da Il ministro, e con Un peuple et son Roi narra i tre anni e mezzo che dividono l’inizio della Rivoluzione Francese, con la presa della Bastiglia, e la decapitazione di Luigi XVI. Un’opera organica che conferma l’eleganza autoriale del regista francese. Fuori concorso alla Mostra di Venezia.

Lo Stato decollato

Dalla presa della Bastiglia il 14 luglio del 1789 alla decapitazione di Luigi XVI il 21 gennaio 1793: il popolo insorge e rovescia la monarchia, in un cammino lungo e accidentato noto a tutti come “Rivoluzione francese”. [sinossi]

Esiste forse un evento storico più simbolico e inscalfibile di quello che chiamiamo “Rivoluzione francese”? Probabilmente no, ma non è consueto pensarla o rappresentarla per quel che è stata: un lungo cammino scandito da passaggi, snodi, direzioni possibili, incertezze. Se in Un peuple et son Roi – presentato Fuori Concorso alla Mostra di Venezia – non è certamente mai in discussione la ragione del popolo, che alza la testa contro una monarchia da superare e deporre, il tentativo riuscito del bravo Pierre Schoeller (Il ministro) è quello di accompagnare lo spettatore in un cambiamento di sguardo che segnerà il mondo, quello della percezione di cosa rappresenti il Re per lo Stato. Se è scontato, per noi, non pensare a un sovrano come al detentore dell’ordine politico e sociale per volontà divina, il film parte fin dall’incipit affondando nella realtà settecentesca, in cui la deposizione del regnante è un lungo processo, frutto di momenti dialettici, di un sentiero lento e non immediato. Che il film scandisce negli episodi cruciali della rivoluzione fino alla decapitazione di Luigi XVI: dalla Bastiglia alla cacciata del sovrano da Versailles, dalla repressione di Campo di Marte alla presa del Palazzo della Tuileries (dove dimoravano il Re e la Regina negli ultimi loro anni di vita), fino al grande dibattito sulla condanna a morte (o meno) di Luigi XVI. Nel far questo Schoeller non solo ha attraversato un’enorme mole di studio (anche archivistico, visto che molti dettagli sono desunti da documenti originali: la preparazione del film è durata 7 anni), ma racconta personaggi calati nella propria epoca, dunque totalmente ignari delle conseguenze storiche delle loro azioni, guidati dai propri desideri vitali. Il punto di vista del film è quello del popolo, rappresentato nelle scelte quotidiane, nei bisogni che mossero le pulsioni, mentre i grandi protagonisti politici – Danton, Robespierre, Marat – vengono lasciati ai margini: in questo modo in Un peuple et son Roi rende la rivoluzione francese “una cosa vera, non un concetto da manuale di filosofia, un impegno nella vita quotidiana dell’individuo”, come ha detto il regista. Ricordando anche che quello che chiamiamo, monoliticamente, “rivoluzione”, venne chiamata all’inizio anche “rigenerazione” e che da principio non era escluso un processo di riforma che conducesse a una nuova costituzione mantenendo la monarchia. Dunque la rivoluzione è vista come un evento dinamico e l’intelligenza del film sta in questa scelta, sistemica e non banale, di mostrare un susseguirsi di scosse telluriche, da alcune delle quali non sarà però pensabile tornare indietro.

Il film, come il precedente lavoro di Schoeller Il ministro, esordisce con un prologo: una volta al mese il Re accoglie a Versailles i bambini poveri e lava loro i piedi. Alla fine, invece, quel che vedremo sarà la testa decapitata del Re, con quegli stessi bambini che toccano il suo sangue, il sangue dello Stato che fu, raccolto nel secchio sotto la ghigliottina mentre la gente festeggia la fine della tirannia. Tra l’alfa e l’omega, tra la percezione del Re come elemento naturale e divino dell’ordine e quella del Re smantellato e letteralmente fatto a pezzi per far spazio alla nuova società, il film scandisce gli episodi che marcarono dissidi e divisioni politiche, ma catalizzarono sempre più il “quarto stato” verso gli ideali dell’uguaglianza materiale. Mentre sullo schermo scorrono i momenti cruciali dei tre anni e mezzo raccontati da Schoeller, il regista mostra coerenza anche nel leggerci le versioni e le riscritture delle “costituzioni” che seguirono la presa della Bastiglia: ogni cosa è frutto di un tappe successive e mai improvvise. Per condurre un po’ per mano lo spettatore, fornendogli “materiale” più classicamente narrativo, Schoeller sceglie di focalizzarsi sulle vicende di alcuni personaggi, in particolare la lavandaia Francoise (la sempre splendida Adèle Haenel) e il vetraio chiamato da tutti “lo Zio” (Olivier Gourmet), mostrando proprio attraverso di loro la penetrazione delle idee nuove e il mutamento della percezione generale. La scelta di individuare due (falsi) protagonisti in un film sistemico e corale è in fondo l’unica veramente convenzionale, ma il regista resta più interessato a metterci in contatto con le dinamiche che condurranno a mutamenti epocali, sottolineando inoltre la difficoltà nello “smontare” ciò che da secoli si ritiene valido. Da questo punto di vista è interessante che le donne siano rappresentate pariteticamente o addirittura risultino anche più attive degli uomini nei momenti di scontro e lotta, ma che nessuno dei popolani nelle conversazioni riconosca loro il diritto a un eventuale voto; nell’Assemblea nazionale, ovviamente, sono gli uomini a parlare, mentre tutte le donne ascoltano speranzose in una vera, concreta, forte liberazione dalla povertà, dalla fatica, dall’usura dei giorni. Le idee nascono, ma per esistere devono diventare concrete e questo è il risultato di un lungo percorso.

Ma i cambiamenti non richiedono solo tempo: “Per fare un oggetto solido non basta il tempo, serve la grazia. Occorre la grazia del gesto”, dice “lo Zio” mentre insegna a realizzare una perfetta sfera di vetro al compagno di Françoise, Basile (Gaspard Ulliel), in una bella sequenza del film. Mentre l’Assemblea Nazionale sta scegliendo la sorte del Re, Schoeller ci mostra in montaggio parallelo due popolani che lavorano, uno dei quali profferisce appunto una frase che dialoga, in realtà, con quel che stanno decidendo i rappresentanti in assemblea. La frase è cruciale per leggere il preludio dell’imminente Terrore e per suggerire quanto i processi storici siano in realtà fragili e delicati come il vetro. Il regista, giustamente, non giudica neppure per un istante la scelta della ghigliottina, perché il suo film è calato negli occhi e nei cuori delle persone che, dal basso, fecero la Storia, ma indubbiamente in quella frase – che si incunea in mezzo alle dichiarazioni di voto sulla morte del sovrano – c’è un implicito invito allo spettatore di porsi come postero riflessivo rispetto ai fatti mostrati. La sequenza, oltre che significativa dal punto di vista contenutistico, è anche molto bella dal punto di vista registico. Ma non sono pochi i momenti notevoli di un film che, dopo il prologo con il lavaggio dei piedi agli infanti, esordisce con la luce del sole finalmente visibile da dietro i torrioni della Bastiglia, le cui pietre vengono fatte cadere a terra, mostrando il cielo al popolo che può guardare verso l’alto. Anche il dibattimento che porterà alla condanna a morte di Luigi XVI è scandito dalla luce e dal suo declinare. Una certa attenzione è riservata anche al suono, che a un certo punto scompare durante la presa della Tuileries, probabilmente la sequenza più bella di Un peuple et son Roi: non si sente più nulla per un colpo di fucile che ha compromesso per alcuni istanti l’orecchio di Basile, ma non si sente più nulla soprattutto perché da lì in poi sarà l’inizio di uno smarrimento inarrestabile. La consapevolezza visiva di Schoeller è in ogni caso forte e sempre ben presente: c’è il senso del dettaglio che non serve alla storia ma la esprime (uova che si rompono nel grembo di una donna; il brevissimo soffermarsi sul “parrucco” di Robespierre – interpretato da Louis Garrel – che riecheggia inoltre Danton di Wajda), un diffuso e più “scontato” (vista l’operazione storica) piacere pittorico, l’eleganza dei movimenti che non sono vezzo ma hanno una funzione narrativa nelle scene d’insieme ambientate nelle abitazioni degli umili, mentre un magnifico carrello percorre da destra a sinistra, frontalmente, gli oratori dell’Assemblea nazionale mentre parla Danton (Vincent Deniard). E, come ne Il ministro, anche qui c’è il terribile sogno di Re Luigi XVI (Serge Merlin), sbeffeggiato dai suoi antenati in un incubo che prelude alla disfatta della corona. La colonna sonora, firmata dal fratello del regista Philippe Schoeller, fa infine da contrappunto “moderno” alla messa in scena in costume di Un peuple et son Roi, lavoro di grande ambizione impreziosito da un cast di attori molto noti, tra cui non si può segnalare anche un ghignante Denis Lavant nel ruolo di Marat.

Quel che a un primo, molto distratto sguardo può apparire un “polpettone” in costume sulla vicenda fondativa dell’Europa moderna, è non solo un lavoro meticoloso da un punto di vista della ricostruzione storica, ma soprattutto una riflessione organica, benché narrata in modo frammentato, che conduce lo spettatore all’interno di un trapasso, in un viaggio da un mondo a un altro. Girato con maestria, Un peuple et son Roi riesce in un’impresa difficile: quella di onorare la rivoluzione francese e soprattutto il popolo, con il suo sovversivo impulso verso la giustizia e l’uguaglianza, e al tempo stesso di porre lo spettatore dentro ai fatti, mettendolo nella condizione di interrogarli e interrogarsi. Schoeller non scade mai nell’errore di giudicare il presente di quel passato né i suoi personaggi, che in fin dei conti stanno andando dritti tra le braccia del Terrore, ma posiziona il suo sguardo in modo tale che siamo noi a dover valutare le conseguenze di quella decapitazione, di quella testa mozzata ed esibita. Il sangue di un ordine sociale che è terminato. Da lì in poi il film si interrompe, perché l’unica certezza è la fine, l’interruzione del legame secolare che ha unito un popolo e il suo re. Il resto della storia la stiamo ancora scrivendo noi.

Info
La scheda di Un peuple et son roi sul sito della Biennale.
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