Francisca

Francisca

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Al pari di Amor de Perdição, Francisca segnava nel 1981 uno degli apici della filmografia di Manoel de Oliveira portando a maturazione il suo personalissimo discorso su Storia, Teatro e Cinema. In versione restaurata a Venezia 76.

Hanno detto che Francisca è stanca di vivere

Francisca si basa sul libro Fanny Owen di Agustina Bessa Luis, che a sua volta si rifaceva a un fatto realmente accaduto nell’Ottocento. Il film segue le riflessioni dei due protagonisti, José Augusto e Camilo Castelo Branco, sulla vita, le donne, l’amore, il destino e la sfortuna. Con l’evoluzione del dialogo tra i due uomini nel corso del film, i personaggi sono catturati dalla vita, vittime delle proprie convinzioni. [sinossi]

Al di là dell’operazione di restauro digitale, tra l’altro non deprecabile, che ha permesso a Venezia 76 nella sezione dei classici di rivedere un film come Francisca, vi è un altro e ben più intenso motivo di ri-attualizzazione di uno dei capolavori deoliveriani, il fatto che questo film dell’81 sia immediatamente precedente rispetto al “postumo” Visita ou Memórias e Confissões, diretto dal cineasta per l’appunto quello stesso anno, ma mostrato pubblicamente – nel maggio del 2015 a Cannes – per suo volere solo dopo la morte dell’autore. Non ci sembra casuale che de Oliveira avesse deciso di pensare già al suo testamento/trapasso dopo aver realizzato due film-fiume quali Amor de Perdição (1979) e lo stesso Francisca, due titoli accomunati dal senso di morte che vi aleggia, ma anche dalla durata decisamente superiore rispetto alla media, due titaniche imprese cinematografiche (prima di quella ancora più estrema, quali le sette ore di Le soulier de satin) che hanno permesso tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta di far entrare di diritto il maestro portoghese tra i grandissimi della storia del cinema.

Ma vi è anche altro che accomuna Amor de Perdição e Francisca, preludendo proprio a Visita ou Memórias e Confissões, vale a dire quel percorso di progressiva sparizione della presenza autoriale che giunge a perfetta maturazione proprio in questi film, arrivando finalmente a far evaporare i residui di buñuelismo ancora ben percepibili in Il passato e il presente (1972) e in Benilde o la Vergine madre (1975). Si vuole cioè intendere che è in questo momento, con questo trittico realizzato tra il ’79 e l’81 che de Oliveira diventa de Oliveira, ed evidentemente pago di ciò, arriva subito a immaginare la sua morte. Che questa fase rappresenti una svolta – e un apice, forse insuperabile – lo dimostra d’altronde tutto il suo cinema successivo, in cui – nel momento in cui si constata di non essere morti e di avere la possibilità di poter continuare a vivere – la sua filmografia diventerà improvvisamente e sovrumanamente ultra-prolifica, come mai lo era stata prima.

E, sempre in Amor de Perdição, in Francisca e in Visita, ou Memorias e Confissões (sia pure in maniera meno evidente ma non per questo meno significativa), de Oliveira trova anche la formula esatta del suo rapporto con la teatralità – invero già palesatosi come mirabolante sacra rappresentazione in Acto da primavera (1963), con la caratteristica però di una più preponderante e abbondante auto-affermazione autoriale.
Qui, e veniamo finalmente solo a Francisca, il film storico si fa teatro e il teatro si fa film storico, in un eterno presente che non è frutto di una banale attualizzazione (si pensi al recente adattamento de Il sindaco del rione Sanità di Mario Martone) ma che è sublimato ed ‘eternalizzato’ dal mezzo cinematografico, e anzi dal set stesso: il passato letteralmente rivive al cinema nell’esperienza del set; è questo il presente che importa, è questo il presente in cui il racconto viene vissuto ed esperito.

Ciò lo si verifica in maniera incontrovertibile negli sguardi in macchina di cui è costellato Francisca, il cui senso non è tanto da collegare a una “presentazione” da cinema delle origini o all’a-parte di matrice teatrale, quanto a una sorta di richiesta di interlocuzione nei confronti dello spettatore, a una sua inaspettata e improvvisa chiamata in causa, ancora più sconvolgente ed enigmatica perché sempre in qualche modo implicita, ai bordi del non-detto, non-visto. I personaggi ci guardano, come magari si potrebbe notare un passante curioso e un po’ eccentrico e poi riprendono a parlare tra loro.

L’altra chiave di lettura fondamentale di Francisca è la performance. Parrebbe strano dirlo per un film che limita al massimo i movimenti di macchina (e in questo sta uno dei momenti essenziali dell’astrazione autoriale di de Oliveira), e invece non è così. Perché la performance – che è sempre singola e qualche volta doppia, come diremo dopo – è il ciak stesso (sappiamo che de Oliveira non amasse fare diversi ciak perché poi avrebbe avuto difficoltà a scegliere quello giusto). Non intendiamo dire che si veda il ciak, quanto piuttosto che Francisca è composto sostanzialmente di tante micro-unità (i piani-sequenza e/o capitoli, come i capitoli di un romanzo) separate e cadenzate ogni volta da una didascalia in cui si raccontano dei passaggi narrativi presi dal romanzo omonimo di Agustina Bessa-Luís.
In questo modo, in maniera inusitata, delle apparenti monadi arrivano a comporre miracolosamente un film intero, in cui ogni volta è messa alla prova la tenuta del singolo quadro rispetto al movimento degli attori e, soprattutto, rispetto alla forza inebriante del dialogo.
D’altronde il personaggio di Camilo Castelo Branco, scrittore che è tra i protagonisti della vicenda e il cui romanzo più famoso, proprio Amor de Perdição, de Oliveira aveva adattato nel suo film precedente, sembra sostanzialmente ossessionato dalla volontà di esibire la battuta arguta, in un continuo duello di favella con l’amico José Augusto.

In un film sostanzialmente privo di azioni è proprio dunque l’azione (inteso come il termine che urla il regista sul set quando tutto è pronto) il vero centro ineffabile, il farsi del film davanti ai nostri occhi, il rifarsi della storia e della letteratura del Portogallo di fronte al nostro sguardo, il suo riprendere vita in maniera dilatata e cristallizzata, come un teatro di ombre. In tal senso, ancora, l’abuso della parola. La parola che il movimento al film, è al contempo il sintomo della prigionia dei protagonisti, totalmente incapaci di agire, quasi di muoversi, e lo testimoniano sia il ricorrere del gesto dell’entrata a cavallo in casa da parte José Augusto (per una sorta di schizofrenia tra esterni e interni), sia soprattutto il replicare una stessa situazione in due singole inquadrature, rimandando improvvisamente indietro il tempo. Qui si raccoglie tutto, sia il riferimento alle azioni estenuate, sia quello ai ciak e ai punti di vista da assumere su una scena, sia anche – di nuovo – la centralità della parola che infatti ci viene fatta riascoltare per una seconda volta, nelle sue mille sfumature di significato e nella sua poetica e lancinante bellezza, rendendo così doppiamente omaggio all’autrice del testo originario.

Rivedere dunque Francisca ci appaga immensamente, segnalandosi come forse l’unica chiave possibile di film storico, di un cinema che è sempre presente a se stesso, rilettura della Storia per il tramite del Teatro, di una rappresentazione/riscrittura del mondo che è sempre replicabile finché ci sarà il cinema, anche quando forse il mondo non ci sarà più.

Info
La scheda dedicata a Francisca sul sito della Biennale di Venezia.

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