Guerra e pace

Massimo D’Anolfi e Martina Parenti tornano alla Mostra di Venezia con Guerra e pace, viaggio in quattro parti per ragionare sulla violenza imperante nel mondo, e sull’immagine come suo tramite, veicolo e analisi. Come non mai, sembrano affermare i registi, è sempre più necessario esaminare l’immagine affinché una pedagogia della rappresentazione sostituisca l’ideologia della trasparenza del visibile, ideologia tanto più pericolosa quanto più pervasiva in un mondo che è un bombardamento continuo di simulacri presi per veri. In concorso nella sezione Orizzonti.

L’immagine-arma

Il rapporto tra la guerra e il cinema nasce compiutamente nel 1911, in occasione dell’invasione italiana in Libia: da allora le immagini che raccontano, testimoniano, inventano, si sono moltiplicate, codificate e rigenerate fino ai giorni nostri. Dalle sequenze filmate a inizio Novecento alle riprese girate con gli smartphone in Siria o in Somalia, fino a un’accademia militare in Francia in cui si insegna agli allievi-soldati come rappresentare la guerra, l’azione bellica e quella cinematografica dialogano costantemente da oltre un secolo. [sinossi]
“Di questi film è stato detto tutto il bene che meritavano.
Non mi sembra tuttavia che ci si sia sufficientemente soffermati
sull’analisi del meccanismo intellettuale e psicologico
al quale essi devono la loro efficacia pedagogica.
Vale tuttavia la pena di esaminarlo,
poiché la sua molla principale
mi sembra singolarmente pericolosa per l’avvenire”.
André Bazin, in A proposito di Why We Fight, 1946

A Ivry-sur-Seine, appena fuori Parigi, il Ministero della Difesa francese ha creato alcuni anni fa un’accademia che forma giovani militari allo studio della produzione audiovisiva delle immagini di guerra. Si analizzano i quadri dei Seicento quanto le foto in posa dei reduci americani dagli scenari bellici per istruire gli allievi a realizzare riprese consapevoli e calibrate una volta che saranno loro sui teatri di scontro, accanto ai loro colleghi che spareranno da un blindato. Una parte consistente del nuovo lavoro del duo D’Anolfi-Parenti, Guerra e pace presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, è girato proprio in questa scuola in cui vengono formati i “registi istituzionali” delle guerre del futuro. Ma la riflessione degli autori di Spira mirabilis inizia molto prima, alle origini. Ossia da quelle immagini crudeli, per nulla innocenti, taglienti come coltelli, volute dalla propaganda e da un’industria cinematografica già matura e che raccontano l’invasione italiana in Libia nel 1911. Immagini pensate per selezionare una parte della realtà e creare un effetto sul pubblico, ben prima delle grandi opere di propaganda come il monumentale Why We Fight. Più che un lavoro sul rapporto tra cinema e violenza Guerra e pace è una mappa che, disegnando un campo, allude all’intenzionalità come alla più autentica vocazione della rappresentazione e alla non neutralità dell’immagine come elemento ineliminabile del cinema, dell’audiovisivo, del racconto. Le immagini implicano la volontà di chi le crea e il percorso tracciato nel film si estende nella sostanza molto al di là della rappresentazione di guerra, poiché tutte le immagini del nostro mondo iper-mediale, sovrascritto e spesso falsamente neutro andrebbero comprese nella loro intenzione, essendo correlati visibili, manifestazioni, di qualcosa che trama sempre al loro interno.

Guerra e pace è strutturato in quattro parti. La prima, girata all’Istituto Luce, riguarda il restauro di alcuni filmati relativi all’invasione del 1911: il darsi puro della testimonianza non è messa in discussione solo dal suo deperimento e dalla ricerca di riportare la copia a un originale, ma soprattutto dalla falsa coscienza implicata nella distanza storica, come se una sequenza girata più di un secolo fa sul campo dovesse necessariamente e semplicemente essere vera, laddove non lo è affatto ma è anzi opaca e proprio da questa opacità occorre partire per capirla. La seconda parte, estremamente brillante, è girata all’interno dell’Unità di Crisi della Farnesina, a Roma. Brillante è il meccanismo attraverso cui, in questo “episodio”, lo spettatore non è messo di fronte alla decodificazione di una rappresentazione di guerra, ma alla costruzione di una narrazione di guerra o “spionistica”. Non a un’immagine, ma a un genere insomma. Gli alti funzionari che seguiamo nel loro lavoro si trovano di fronte a casi da risolvere, a persone in Somalia o in Siria che hanno bisogno di aiuto o che invece non si sono mai rivolte alle autorità italiane pur trovandosi in pericolo. Avvolti da un flusso, da un moltiplicarsi di fonti rappresentative – la radio, il web, le riprese sul campo con gli smartphone o la creazione di mappe degli esperti del Ministero – i funzionari sono come sceneggiatori che devono rimettere a posto una pluralità di segni sparsi sapendo bene della loro frammentata incoerenza e del bisogno di forma, di leggibilità. Di diventare territorio, mappa appunto. Se nel primo brano di Guerra e pace si guarda una rappresentazione cercandone i codici, nella seconda si crea un’azione mettendo assieme i segni e giocando con il cinema a un altro livello, suggerendoci così che se il cinema contamina la realtà essa diventa cinematica a sua volta e non si pone più – non potrà porsi mai più – come alterità assoluta dal cinema stesso. La terza e più lunga parte del film è invece quella ambientata a l’École des métiers de l’image a Ivry-sur-Seine ed è a sua volta divisa in un metaforico campo/controcampo. Da una parte infatti seguiamo le lezioni degli allievi che apprendono tecniche di comunicazione e produzione di immagini di guerra o afferenti (dalla ritrattistica del reduce al corretto profilo facebook del militare) dall’altra l’addestramento dei soldati veri e propri, per culminare in una sequenza che è esercizio per gli uni e per gli altri, ossia lo studio e la rimessa in scena di un’azione militare. “Azione” è del resto una parola che si usa in entrambi i fronti, il cinema e la guerra. Questa parte, la più complessa, gioca però a sua volta con un altro genere del cinema, quello dei film sulle esercitazioni e gli addestramenti, e al tempo stesso è tuta tesa a sottolineare la necessità di decostruire e ricomporre adeguatamente la rappresentazione per ottenere il giusto effetto. Un intreccio, quello del cinema, dei generi, della violenza, della realtà, che si fa via via sempre più fitto e irrisolvibile. Dove esiste, dove vive, allora, la testimonianza? E che cos’è, autenticamente, una testimonianza? La risposta è forse nell’ultima breve parte, ambientata negli archivi della Cinémathèque suisse ma è, in verità, in tutto Guerra e pace eppure si trova ai bordi, volutamente a lato del racconto e in tutto ciò che sfugge alla volontà e deforma la rappresentazione, fosse anche solo per un istante, per un sorriso, per un colpo di pistola. D’altro canto invece tutto è testimonianza, anche la propaganda, perché quell’animale dotato di espressione che è l’uomo abita sotterraneamente, sempre, implacabilmente, ogni sua forma detta, ripresa, dipinta. Il problema in questo caso è capire la logica del testimoniale, capire di cosa, un atto visibile, sia testimonianza.

Non sorprende che un film di D’Anolfi e Parenti esordisca su di un sentiero per poi porre interrogativi che si allargano a cerchi concentrici. In Guerra e pace in fondo investono il senso del rappresentare, anche quando la rappresentazione – con i suoi fantasmi e le sue maschere – riguarda la cosa più tragica e viscerale del nostro consesso animale, la guerra e le sue vittime. La violenza, la morte, gli attentati sono ogni giorno e saranno sempre, in olio su tela, fotografati, ripresi dai comandi militari o raccolti dai telefoni in diretta, montati per i servizi televisivi, testimoniati ex post dalle vittime, così come sarà sempre la rappresentazione, fondamentale per la memoria dell’uomo. Come non mai, probabilmente, è sempre più necessario esaminare l’immagine affinché una pedagogia della rappresentazione sostituisca l’ideologia della trasparenza del visibile, ideologia tanto più pericolosa quanto più pervasiva in un mondo che è un bombardamento continuo di simulacri presi per veri. Se il cinema condivide con la guerra la violenza, intesa come atto strategico e mai casuale di espropriazione dell’azione dal flusso, se il cinema inoltre racconta da sempre la guerra e la violenza come dato umano, nel conflitto tra manifestazione visibile ed esistenza, tra il riflesso e la carne, sopravvive la memoria, sopravvivono volti, persone, corpi che furono. Più che mai non si può ignorare la complessa macchina narrativa in cui abitiamo per cercare di leggerne il senso, la lotta tra le volontà, il dominio che parla e il dominato che tace. Una guerra di immagini che ogni giorno si compie con le sue armi, affilate come lame, minacciose come un assedio.

Info
Guerra e pace sul sito della Biennale.

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