Non odiare

Non odiare

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Non odiare segna l’esordio al lungometraggio del quarantaduenne Mauro Mancini, impegnato nel racconto di un incontro/scontro tra un chirurgo di origine ebraica e i figli di un fervente nazista, che l’uomo ha lasciato morire a seguito di un incidente stradale proprio dopo aver notato i tatuaggi inneggianti le SS. Un’opera imperfetta ma non priva di spunti interessanti, tanto nella narrazione quanto nella messa in scena. Con Alessandro Gassmann e Sara Serraiocco. In concorso alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia.

La svastica sul cuore

In una città del nord-est vive Simone Segre, affermato chirurgo di origine ebraica: una vita tranquilla, un appartamento elegante e nessun legame con il passato. Un giorno si trova a soccorrere un uomo vittima di un pirata della strada, ma quando scopre sul suo petto un tatuaggio nazista, lo abbandona al suo destino. Preso dai sensi di colpa, rintraccia la famiglia dell’uomo: Marica, la figlia maggiore; Marcello, adolescente contagiato dal seme dell’odio razziale; il piccolo Paolo. Verrà la notte in cui Marica busserà alla porta di Simone, presentandogli inconsapevolmente il conto da pagare. [sinossi]

Cosa fareste se foste chirurghi e vi trovaste a dover soccorrere nel bel mezzo della strada una vittima di un pirata della strada, incidente di cui siete stati testimoni oculari? Probabilmente fareste di tutto per salvare la vita della vittima in attesa dell’arrivo dei soccorsi. Ma se nel prestare il primo soccorso all’individuo vi trovaste a scoprire che il suo corpo è un inno continuo al nazismo, dall’immancabile svastica sul cuore al logo delle Schutzstaffel, le famigerate SS che nella criminale ideologia hitleriana avevano il compito di fungere da “squadre di salvaguardia”? Sareste ancora così pronti e solerti nel tentativo di salvare la vita del moribondo, di permettergli almeno di arrivare in ospedale? È da questo secondo interrogativo che parte Non odiare, esordio alla regia di un lungometraggio per il quarantaduenne Mauro Mancini, ospitato nel concorso della Settimana Internazionale della Critica durante i lavori della settantasettesima edizione della Mostra. Il chirurgo in questione è Simone Segre, il cui cognome sottolinea l’origine ebraica della sua famiglia, che mentre pagaia con la sua canoa in un canale – attività che svolge quotidianamente – assiste a un pauroso incidente stradale, il cui colpevole si dà prontamente alla fuga. C’è però una duplice omissione di soccorso: quella dell’autista e quella dello stesso Segre, che nonostante si lanci nel fermare la brutta ferita alla gamba dell’uomo intrappolato nella vettura con un laccio emostatico improvvisato, viene meno al giuramento di Ippocrate dopo aver appurato al di là di ogni ragionevole dubbio di trovarsi a tu per tu con un nazista. Il suo senso di colpa, ma in gran parte la sua curiosità nei confronti di una realtà così oppositiva alla sua, lo spingeranno ad assumere come domestica la figlia maggiore del defunto – seppellito con tutti gli onori dai suoi camerati a suon di braccia tese.

Non mancano i difetti e i passaggi a vuoto a Non odiare, da una scrittura troppo semplificata in alcuni passaggi (la sottotrama noir, che vede i figli del morto ricattati da un usuraio cui il padre doveva ben dodicimila euro, è affrettata, piomba nella narrazione dal nulla ed è anche risolta con troppa rapidità solo per poter garantire al film una svolta ulteriore: era lecito attendersi una maggior cura e una minor superficialità sotto questo aspetto) a un eccesso nelle riprese dall’alto con i droni, in fin dei conti poco giustificabili. Eppure viene naturale difendere un’opera prima che cerca di smarcarsi da molti dei luoghi comuni in cui sprofonda solitamente la produzione italiana. Il conflitto ebreo/nazista è un dettaglio solo relativamente centrale, e semmai interamente ricondotto al confronto tra Simone e il figlio mediano del morto, che sembra in tutto e per tutto voler seguire le orme paterne, al punto da arrivare dapprima a minacciare e quindi a pestare il protagonista perché, a detta dell’adolescente, un ebreo non può permettersi di assumere a servizio una “gentile”. Ed è proprio il personaggio interpretato con notevole credibilità da Alessandro Gassmann a rappresentare l’anomalia più evidente del film. Contrariamente a quanto il cinema italiano è abituato a propinare ai suoi spettatori, Simone Segre è sì un professionista di successo – è un chirurgo, come si è già avuto modo di scrivere – ma ciononostante non ha ritenuto necessario metter su famiglia. Nel suo grande appartamento, frutto in parte del proprio lavoro in parte dell’eredità famigliare (non viene dal proletariato, come testimonia la bella villa del padre che sta cercando di vendere senza troppo successo), vive solo. Può sembrare un dettaglio di poco conto, ma in realtà è il segnale di un’attenzione al proprio racconto tutt’altro che secondaria, o minore. Segre deve essere solo, come soli sono i figli del nazista morto (e che nessuno davvero piange, altro dettaglio fondamentale: non verrà mai chiesto conto al protagonista della sua omissione di soccorso): tutti orfani di genitori disastrosi, che devono riuscire a trovare un posto al mondo uscendo dagli schemi che li hanno conformati.

Un percorso che viene in parte inceppato, o comunque appare depotenziato, da un finale che scivola via molto più indolore di quanto dovrebbe essere. C’è una scelta forte che viene operata – e che rappresenta uno scarto di senso reale, non come l’intromissione del personaggio del cravattaio – per poi essere però celata in un’inquadratura innocua. Si può mettere in scena un saluto nazista nel cinema italiano senza che la produzione, o chi per lei, si intimorisca al punto da volerla nascondere, in quel vedo/non-vedo che è il male oscuro, e letale, dell’immaginario? Evidentemente no, ed ecco che la scelta di senso più atroce del film – per quanto si possa evolvere non è possibile emanciparsi compiutamente e completamente dal plagio – diventa quasi inavvertita, di difficile ricezione, occultata. Con il risultato di rendere meno riconoscibile, e dunque memorabile (nel senso etimologico del termine) anche il film stesso, costretto suo malgrado a permanere solo nel campo dell’esordio interessante. La speranza è che Mancini abbia modo di sviluppare in futuro il proprio sguardo, rendendolo più personale e coraggioso. Indipendente dalle logiche esterne e dunque, fin dalla radice, a sua volta antifascista.

Info
Non odiare sul sito della SIC.

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