Barton Fink – È successo a Hollywood

Barton Fink – È successo a Hollywood

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Speciale Senza il cinema. Con il cinema.
Racconto di paranoia, isolamento, inadeguatezza, frustrazione, Barton Fink – È successo a Hollywood è una riflessione sul rapporto tra la volontà di scardinare le trame preordinate e l’incapacità/impossibilità a uscire dal proprio ego per confrontarsi con il reale, con ciò che accade nel mondo esterno. Premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1991 fu il film che permise a Joel ed Ethan Coen (solo il primo accreditato alla regia, come sarà fino a The Ladykillers, nel 2004) di entrare definitivamente nel gotha di Hollywood.

Crocevia di fine secolo

New York, 1941: dopo il suo primo successo a Broadway, il drammaturgo Barton Fink viene assoldato dal boss di una major hollywoodiana, Jack Lipnick, per scrivere sceneggiature. Scettico e un po’ spaventato, Barton si trasferisce a Los Angeles dove va a vivere in un hotel fatiscente popolato da strani personaggi. Se in poche settimane deve realizzare lo script di un film sul wrestling, Barton ha enormi problemi anche solo a terminare una pagina… [sinossi]

Premiato nel 1991 da una giuria presieduta da Roman Polanski con la Palma d’Oro, il premio per la miglior interpretazione a John Turturro e quello per la regia a Joel Coen, Barton Fink è il titolo che fece fare il “grande balzo” alla quotazione dei già molto apprezzati fratelli del Minnesota e resta ancora oggi uno dei loro film più affascinanti e misteriosi. Racconto di paranoia, isolamento, inadeguatezza, frustrazione e incapacità di comprendere il reale, il film (a detta degli stessi autori) trasse una certa ispirazione proprio dalle atmosfere del regista polacco che li celebrò a Cannes, in particolare quelle di Repulsion e L’inquilino del terzo piano: felice cortocircuito per un film che è esso stesso un cortocircuito allucinato.
Se gli anni Novanta sono il periodo in cui si condensano i dubbi e le incertezze di un secolo che si sta per chiudere e che consegna agli esseri umani e al cinema più interrogativi che altro circa il senso e l’origine della rappresentazione, i Coen si rivolgono al passato, come avevano del resto già fatto con il precedente Crocevia della morte (1990), e in particolare alla fatidica data del 1941, quando gli Stati Uniti entrarono attivamente nella Seconda Guerra Mondiale dopo l’attacco di Pearl Harbor. Un altro momento apocalittico, non decifrato compiutamente dalla società americana fino al momento in cui i soldati vennero davvero mandati a morire su vari fronti e che Barton Fink assume al proprio interno senza neppure citarlo apertamente ma come snodo forse centrale nel rapporto tra maschera conscia e paura inconscia. La maschera di Barton Fink è quella di un allampanato drammaturgo idealista che ha ricevuto encomi per una sua pièce teatrale andata in scena a Broadway. Ispirato alla figura di Clifford Odets (uno dei membri del Group Theatre newyorkese poi assoldato dagli Studios hollywoodiani), Barton nonostante l’apparente umiltà è pieno di sé, non sa ascoltare le persone ma è ossessionato dal ribaltamento dei canoni narrativi usurati e teso alla ricerca dell’uomo comune, delle vite semplici cui l’arte dovrebbe attingere per creare le proprie storie. Gettato in pasto alla Capitol Pictures, major immaginaria capitanata da un personaggio über-coeniano come Jack Lipnick (Michael Lerner) che ha in comune con Louis B. Mayer di essere nato a Minsk, Barton dovrà invece cimentarsi con la catena di montaggio della Hollywood di inizio anni Quaranta, scrivendo innanzitutto un film di wrestling con poche e semplici linee-guida: un wrestler buono deve vedersela con uno sbruffone cattivo e nella sua strada incontrerà o una donna o un orfano (ma non entrambi, come suggerisce infastidito Lipnick). Alloggiato in un hotel che rievoca l’angoscia degli interni polanskiani, Barton è in preda a un blocco creativo totale e paralizzante (epidermicamente le carrellate nei corridoi dell’albergo dove trova rifugio uno scrittore che non riesce a scrivere non possono che ricordare anche Kubrick): lui vorrebbe narrare la verità del mondo, che è assolutamente inatto a comprendere, ma deve scrivere un film di genere, che è assolutamente inatto a realizzare.

In un film surrealista e post-moderno sulla creazione e il suo rapporto con la realtà, i Coen si voltano indietro e guardano a quel passato monolitico, inscalfibile, in cui gli scrittori venivano messi a libro paga dagli Studios per sfornare quante più sceneggiature fossero in grado di realizzare, incardinate su formule e codici precisi, capaci di portare in sala la gente, ossia le persone comuni vagheggiate dal protagonista. Nel disfacimento di fine Novecento, in cui non si sa più se le realtà ispiri l’arte o viceversa ne sia impregnata a tal punto da non esserne distinguibile, i Coen riesumano gli scrittori votati all’industria e a cui il problema della scaturigine dell’atto narrativo non si doveva porre al fine di produrre: per scrivere un film, viene ripetuto più volte, non occorre attingere a chissà quali verità, bensì seguire stilemi e guardare i film precedenti sulla materia. Ma che cos’è scrivere? Cosa significa creare? Nell’immane sforzo di rispondere a questi assilli incessanti, Barton non riesce a stendere una pagina ma incrocia i personaggi principali che lo condurranno a confondere ulteriormente verità e rappresentazione. Come William P. Mayewh (Jonh Mahoney), venerato maestro e sceneggiatore alcolizzato liberamente ispirato a Faulkner, secondo cui scrivere è fuggire dal reale e viaggiare con l’immaginazione mentre per Barton la scrittura nasce dalla sofferenza. O come la compagna di Mayewh, Audrey (Judy Davis), che si scoprirà essere la vera autrice di parecchi lavori del decantato artista. Ma soprattutto conoscerà l’incredibile omone Charlie (John Goodman), il suo vicino di stanza, falso assicuratore che per Barton diverrà l’unico riferimento sicuro e saldo della sua precaria esistenza nel tritacarne californiano. Peccato che Charlie non sia quello che sembra e che, ancora una volta, Barton non ci abbia capito nulla. Il vicino di stanza è infatti un pazzo omicida, che alla fine darà addirittura fuoco all’intero albergo, e che si chiama Karl Mundt, come un senatore repubblicano eletto al Congresso nel 1939 che fu uno dei membri dell’HCUA (comitato investigativo nazionale che si occupava di attività sovversive e anticomuniste) e in seguito lavorò a fianco del famigerato Joseph McCarthy. La gente comune, le persone semplici, nel film hanno il volto di un folle assassino, che uccidendo un poliziotto dice addirittura “Heil Hitler” ma che Barton aveva preso per amico, voce dell’amato popolo senza voce.

Ricchissimo di rimandi ironici tra personaggi del passato e fantasmi sullo schermo, Barton Fink è una delle epitomi del post-moderno anni Novanta anche per come attraversa liberamente i generi per virare poco oltre la metà del film in un noir asfissiante, in cui tutto quello che pareva concreto al protagonista si liquefà nel suo opposto, come la carta da parati dell’albergo che si stacca dai muri. Ma epitome del post-moderno lo è anche per uno dei temi portanti, ossia l’indecidibilità tombale tra verità e finzione. Il risultato è un lavoro di neo-surrealismo inquieto e al tempo stesso poetico come il bellissimo finale. Nella sua squallida camera d’albergo, Barton osserva sempre un quadretto appeso alla parete: rappresenta una ragazza di spalle, in costume, che guarda il mare dalla spiaggia. Vagando sulle spiagge di L.A., nell’ultima scena, Barton troverà proprio una ragazza in costume con cui scambierà un breve dialogo chiedendole se sia un’attrice. No, non lo è, dirà lei prima di chiedergli a sua volta cosa contenga la scatola che Barton porta con sé (“non lo so”, dice lui) e se sia sua (“non lo so”, torna a rispondere l’uomo che non c’era); poi lei si siede sulla sabbia per girarsi verso il mare, esattamente come nel quadro appeso nelle ben poco graziose pareti dell’hotel. Da cosa nasce cosa? Dalla rappresentazione nasce ciò che vediamo e vogliamo vedere? Da ciò che desideriamo che sia scaturisce il presupposto dello sguardo che dunque è prigioniero autistico di se stesso? Dalla carne feroce del mondo può nascere verità nella rappresentazione?

Barton ha anche, infatti, concluso la sceneggiatura cui doveva lavorare, ma solo in seguito alla scoperta che il suo vicino di stanza era un omicida, ossia soltanto dopo aver compreso la sostanza di qualcosa cui, nella sua supponenza, non si era neppure avvicinato prima che la polizia lo andasse a informare. La sua sceneggiatura, intitolata The Burlyman, è ispirata a Charlie/Karl che diventa “suo” antagonista. E in fondo, ironicamente, la sceneggiatura parla di un wrestler buono (Burton) che deve sconfiggere un uomo corpulento e violento (Charlie/Karl) e supponiamo con ogni probabilità che di mezzo ci sia una donna (Audrey). Burton non si è scontrato forse nella realtà esattamente con la scaletta del film che doveva scrivere? Un testacoda che intreccia i piani tra loro in maniera indistricabile, ricorsiva, eterna. Per Barton si tratta di un lavoro stupendo. Non la pensa per niente così il tirannico Lipnick, alla fine diventato militare oltre che magnate del cinema, che per umiliarlo non lo licenzia dalla sua Capitol Pictures ma lo terrà al giogo a tempo indeterminato stracciando eventualmente qualunque cosa scriverà. Cosa c’è che non va in The Burlyman? Ovviamente non lo sapremo mai, ma forse il peccato di Barton Fink è di aver involontariamente preso parte alla scaletta del film ed esserne diventato protagonista. Del resto l’osservatore di un quadro che prende vita viene inglobato al suo interno proprio nell’enigmatico finale. Ma se il creatore di storie non è autonomo per nulla né onnisciente su nulla, nonostante tutte le domande e i tormenti, contenere verità e menzogna o fonderle in giuste dosi non troppo sbilanciate e perturbanti è forse compito dell’industria e del produttore/militare Lipnick. Chi tiene le fila di questo arzigogolato marchingegno e chi ne è autore?

Il marchingegno produttivo proseguirà con o senza l’opera di Barton Fink, questo è certo. Mentre quest’ultimo ha attraversato lo specchio di Alice e ora è stremato e in crisi di identità. L’autore di tutto resta ignoto e a dire il vero anche l’oggetto non è poi così determinato. Sul concetto di indeterminazione i fratelli Coen realizzeranno in seguito L’uomo che non c’era (2001) e ad esso si richiameranno anche nel magistrale A Serious Man (2009). In Barton Fink c’è una forte suggestione a riguardo, spaventosa e incubale più che concettualmente compiuta, sintomo di una grande paura rispetto a ciò che sfugge al controllo delle forme, a ciò che credevamo e si rivela fallace, a un mondo disseminato di segni che solo l’imperio delle strutture – materialisticamente orientate altrove – ha il potere di riordinare. Non c’è nostalgia per la Hollywood che fu in Barton Fink quanto piuttosto l’ammissione di non possedere niente, né se stessi né la propria opera, e di non sapere, assolutamente, se i presupposti consci dello sguardo orientino o disorientino l’atto del raccontare rispetto a un oggetto presupposto che forse non esiste neppure al di là dei nostri schemi mentali. Ciò che esiste è una forma primigenia e terrorizzata di osservazione, destinata comunque ad abitare le forme della narrazione, ravvivata da un ribaltamento primitivo. La scoperta che il proprio vicino “di casa” è un assassino. Una guerra. La fine di un secolo. L’imperturbabilità del potere metamorfico. Un’osservazione più profonda e intima non necessariamente accolta nella catena produttiva del racconto del mondo. La velleità della padronanza è finita, i sogni idealistici evaporati: da solo Barton Fink non esiste e proprio per questo dà il titolo a un film. Così come non esistono “le persone normali” o non esiste Mayewh senza Audrey, Charlie senza Karl e il produttore senza un ruolo nell’esercito. Nel 1991 Barton Fink apre con decisione al decennio più squisitamente post-moderno del cinema americano, quello dello smarrimento del soggetto e del tempo, e lo fa attingendo al passato di Hollywood per chiedersi se, in fondo, la coerenza visibile di tempo e soggetto sia mai esistita al di fuori del cinema che l’ha impressa nella nostra retina.

Info
Il trailer di Barton Fink.

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