Birdcage Inn

Birdcage Inn

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Poeticissima parabola di sessualità, dolore e liberazione, Birdcage Inn rappresenta nella filmografia di Kim Ki-duk il primo squarcio di speranza, come un consapevole ponte fra la disperazione elegiaca degli esordi e quello che ben presto, nella manciata d’anni successivi, sarebbe stato il miracoloso e iperprolifico periodo dei suoi più conclamati capolavori. Per passare dalla morte alla gentile e inspiegabile levità dell’amore basta un walkman, basta una fotografia, basta una palla di neve, basta un gemito, in un’opera terza con cui il compianto regista coreano attraverso il corpo, i desideri, i silenzi, l’acqua, i rapporti umani e la purezza degli ossimori, chiudeva idealmente la sua formazione autoriale degli anni Novanta per anticipare la radicalità matura e intensa dei primi Duemila.

La sœur et la putain

Jin-a, infelice prostituta di 24 anni, arriva in un motel sul mare nella città di Pohang chiamato Birdcage Inn. Il motel, che fornisce a Jin-a una camera e pasti in cambio di una parte del denaro da lei guadagnato, è gestito da una coppia con un figlio adolescente e una figlia che si vergogna dell’attività di famiglia. Le circostanze soffocano ulteriormente la vita di Jin-a: il padre silenzioso la stupra, la madre la vede solo come fonte di denaro per guadagnarsi da vivere ed educare i figli, il figlio Hyun-woo le chiede di scattare alcune foto nuda per un concorso e sogna un rapporto sessuale con lei, mentre la figlia Hye-mi, che ha la stessa età di Jin-a ed è sessualmente repressa, non nasconde il suo disprezzo verso Jin-a e respinge con fare scostante ogni sua gentilezza. Sarà il loro difficoltoso trovarsi al termine di un tortuoso percorso emotivo fatto di clienti, dispetti, crudeltà, vecchi papponi, traumi, ritratti al carboncino e solitudini, la chiave per superare le rispettive pene e tornare a nuotare, proprio come la tartaruga e il pesce rosso liberati nell’Oceano. [sinossi]

Non ha più il carapace della conchiglia dipinto di azzurro, la tartaruga che apre Birdcage Inn. Eppure è evidente come, nel suo pericoloso e terrorizzato vagare fra le gambe umane e gli pneumatici della città, rappresenti idealmente la medesima tartaruga che già era stata testimone del tragico e sublime finale di Crocodile. Sarà la protagonista Jin-a a scorgerla e a salvarla reimmergendola fra le onde del mare, un po’ come se l’autocitazione e la liberazione di quello che nel film d’esordio era stato un simbolo di doloroso pessimismo, di certo non edulcorato dal rivolo di sangue che supera la pistola prima di tuffarsi nel tombino del secondo Wild Animals, fosse per Kim Ki-duk già nell’incipit dell’opera terza la dichiarazione programmatica di una volontà di superamento, di un primo raggio di luce nell’oscurità: dalla disperazione elegiaca di fronte all’ineluttabilità della morte alla speranza di una nuova vita, di una redenzione, o per lo meno di una riconciliazione almeno parziale, almeno temporanea, straordinariamente poetica nella consapevolezza della sua estrema provvisorietà. Del resto quello della testuggine nient’altro è che un passaggio di consegne, verso quel pesce rosso che, boccheggiante sulla sabbia, appare sin da subito dietro di lei come nuovo simbolo uguale eppure opposto, pronto a un simile percorso nel dolore ma che al contrario finirà per essere testimone di amori e di amicizie che sembravano impossibili, di oppressioni che si allentano, di momenti di quiete dopo il susseguirsi di tempeste. Non è certo un caso, in tal senso, che il pesce rosso sia a sua volta l’immediato garante di un altro passaggio di consegne (e nuovo atto di disinteressata generosità della triste e gentile protagonista per salvarlo, privandosi dell’acqua da bere) fra la prostituta precedentemente impiegata al Birdcage Inn e Jin-a nel loro unico, casuale e silenzioso incontro in spiaggia. Un sostanziale co-protagonista solo di poco più silenzioso degli altri, ma ugualmente espressivo: quel pesce rosso la cui acqua sprizzerà disperata dal sacchetto, ma sarà insufficiente per spegnere i bollenti spiriti di quel padre di famiglia che, accecato dal desiderio e ancora lontano dal futuro riscatto, sta violentando proprio chi dovrebbe proteggere dalle violenze. Quel pesce rosso che troverà una prima illusione di serenità nella sua boccia, ma che da quella boccia vedrà ancora perversioni e atti di violenza, microfoni nascosti e ritratti al carboncino, sincere premure e piccate scortesie, visite inattese e lacrime salate. Quel pesce rosso che verrà liberato nell’oceano quando ormai la disperazione sta per tingere perfino la moquette di sangue rattrappito, ma anche quel pesce rosso che tornerà a nuotare sereno, guardando soddisfatto da sotto la superficie del mare l’ormai avvenuto incastrarsi dei pezzi fra gli esseri umani, il loro sbloccarsi ed evolversi, la loro parziale o totale liberazione, i loro abbracci e i loro sorrisi che sembravano impossibili, e che invece adesso sono palpabili come una fitta nevicata in una notte d’estate. Uomini, e soprattutto donne, che dal pesce rosso hanno saputo imparare a resistere, a riprendersi e in qualche modo rinascere, proprio come il piccolo animale, ogni volta che viene rimesso in acqua, ritrova la propria indipendenza e subito ricomincia a nuotare.
Un’allegoria potente e radicata, che sul tramonto dei Novanta raccoglieva l’eredità del primissimo Kim Ki-duk per porsi come il necessario ponte verso quello che di lì a una manciata di primavere, nei primi Duemila, si sarebbe rivelato come il suo cinema più maturo e prolifico. Tanto che solo due anni più tardi, una volta giunti i tempi per la definitiva rottura che il regista coreano avrebbe imposto a se stesso e all’intero mondo cinefilo con il successivo L’isola, per poter spingere in maniera così insistita e radicale sulla metafora ittica e sulla pesca senza tradire la stessa autorialità di simbolismi che ritornano e si ridiscutono Kim dovrà in qualche modo trasformare il pesce in sashimi, distruggerlo, accoltellarlo, lasciando vivo e libero nel lago solo quell’esemplare mutilato che sarà perfetta rappresentazione delle dolorose mancanze dei nuovi protagonisti. Qui, al contrario, il pesce rosso soffrirà, rimarrà più volte senz’acqua, ma sarà sempre salvato fino a trovare la pace, emblematico paradigma di un romanzo di formazione collettiva in cui l’unica possibile via d’uscita dalle crudeltà della vita è imparare a cedere alla gentile e inspiegabile levità dell’amore, fidarsi dell’altro, capirsi, concedersi, abbandonarsi, appartenersi. Trovare la giusta distanza ma rimanere sempre vicini, come lo sguardo di Kim Ki-duk quando sceglie di filmare lo stupro attraverso l’ostacolo acquatico del sacchetto trasparente in cui nuota l’innocente pesciolino. La sua chiave d’autore per affondare le radici in un realismo crudo e dolente, fatto di povertà e prostituzione, di incomprensioni e di dolore, di corpi e di colpe, di pene da sopportare per poi lasciar deflagrare l’emotività in una lirica strabordante e dolcissima, magica come magico e in qualche modo fiabesco è quel personaggio centrale che attira e respinge chi le gravita intorno stravolgendo anime, convinzioni e sentimenti. Un passo poetico fondamentale per giungere alla levità che sarà cardine di Ferro 3, con il quale Kim scandaglia il corpo, l’anima, i sentimenti e il desiderio attraverso un dipinto che è cicatrice di un passato tragico e nebuloso, attraverso le onde da cui farsi sommergere, attraverso una birra da raccogliere durante l’ennesimo coito lavorativo senza trasporto contrapposta all’intensità lirica di quello sguardo da riva verso l’amore vero e sincero che sta nascendo sul trampolino. Un amore puro, appassionato, disinteressato, che solo i puri possono vivere e di fronte al quale gli altri puri non possono che aprire gli occhi.

Sarebbe letteralmente traducibile come “La porta blu” il titolo coreano 파란 대문, Paran Daemun, con cui Birdcage Inn, nel settembre del 1998, fece il suo debutto assoluto al Festival di Busan. Quasi una nota di regia, se così la si vuole leggere, che sembra fare riferimento diretto ai brillanti cromatismi della manciata di dettagli, dei cibi e degli abiti (l’ombrello giallo sgargiante, il coprispalle rosso fuoco, ma anche i pesci dipinti insieme lungo le mura del bordello) che Kim inserisce alla stregua di macchie di colore sugli azzurri e sui grigi neutri di ambienti e paesaggi, quasi fossero già il primo tentativo dei personaggi per staccarsi dalla piatta cupezza della realtà. Fu solo in occasione della prima internazionale alla Berlinale, nel febbraio successivo, che per il titolo in inglese si scelse di lasciar perdere il cancello d’entrata e la brillantezza elettrica della vernice che lo ricopre, concentrandosi invece sul motel/bordello che si apre alle sue spalle e attorno al quale girano i tasselli delle evoluzioni nei rapporti umani fra i personaggi. Una vera e propria educazione sentimentale, quella orchestrata e messa in scena dall’allora ventottenne Kim, principalmente intessuta nel rapporto fra l’animo gentile della giovane prostituta triste Jin-a e le ripetute scortesie della coetanea sessualmente repressa Hye-mi, ma che è in realtà familiare e collettiva fra i desideri che si fanno folli ossessioni di un padre e l’agognata (doppia) prima volta di un impacciato figlio fotografo (con tanto di incontro rivelatore nello studio medico, in cui a nessuno dei due servirà proferire parola per capire cosa sia successo), fra l’accettazione di una madre che deve mettere il cibo in tavola e lo sguardo vigile e implacabile del pesce rosso. Fino a esondare oltre i confini del cortile e delle camere del Birdcage Inn, dalla spiaggia ai trampolini che si stagliano dalla piattaforma in mezzo al mare, tirando nella stessa spirale emotiva aitanti barcaioli che si innamorano e vecchi papponi i cui modi di gangster non riusciranno più a dissimulare le loro fragilità e inadeguatezze, fidanzati bloccati fra il legittimo desiderio e il doveroso rispetto, mattoni lanciati in piena faccia e clienti sfumati fra l’impacciato e il pervertito, editori mendaci e telefonate di denuncia alla polizia, disperate corse in ospedale ed epiloghi notturni in cui rendersi finalmente conto che il sesso, da sempre conosciuto attraverso il filtro di un’ancestrale vergogna per l’impiego di famiglia, nient’altro è che parte dell’amore. Anche quando ci si concede per denaro, in un atto annoiato e meccanico, il sesso fa parte dell’amore, del relazionarsi, dell’appartenersi, del rivelarsi, della passione. Dell’essere vivi, e umani.

Del resto, come quasi sempre in Kim Ki-duk, gran parte del comunicare passa necessariamente per il corpo e per la sessualità, per la violenza e per il desiderio, per il raptus e per il senso di colpa da cui riscattarsi, per lo scoprire le proprie fragilità e per il combattere le proprie ossessioni, per il reciproco ferirsi e per l’ancor più sanguinoso ritrovarsi. Che si tratti di quella verbale o soprattutto di quella insita nelle azioni e nell’intensità di uno sguardo (tanto che in Birdcage Inn, sorta di ponte intermedio anche fra il cinema di parola e quello di silenzi dell’autore, il primo dialogo giunge dopo oltre sei minuti e tre differenti sequenze), la comunicazione è fatta di sguardi ancor più taglienti delle parole, con cui sospettare, intuire, giudicare, chiudersi e comunicare scoramento ma anche, successivamente, ricominciare ad aprirsi nella (ri)trovata intesa e negli sparuti sprazzi di felicità. È fatta di un blocco di disegni e di un walkman, dell’osservarsi e dell’ascoltarsi, di una fotografia riscoperta e di un paio di cuffie con cui rendersi conto della sincerità delle premure. È fatta di un sogno che salva dal tentativo di suicidio e di un doppio inseguimento muto in giro per la città in cui copiarsi, studiarsi, finalmente capirsi e scoprirsi in realtà speculari, gemelle affacciate a identiche finestre che si trovano al di là delle apparenze e delle più o meno obbligate e tristi scelte di vita: la stessa scorza a dissimulare la medesima fragilità, lo stesso orgoglio, ferito e da guarire, nella medesima purezza. Quasi due facce della stessa medaglia: Jin-a che soffre per quell’oscuro passato che l’ha condotta alla prostituzione e che ancora emerge nei suoi strascichi e nelle sue più violente dinamiche, e Hye-mi che soffre invece il suo bisogno di sbloccarsi, di vincere l’imbarazzo e le ossessioni bacchettone, di accettare il desiderio e imparare ad amare smettendo finalmente di disprezzare – «Non accetterò mai nulla da una puttana». Entrambe, dai due poli opposti, in qualche modo schiave del sesso, ed entrambe disperatamente bisognose di dare e ricevere empatia, di un mandarino (con)diviso, di un fiore fra i capelli, di una nevicata impossibile, di un abbraccio sdraiate sul pontile prima di scambiarsi premure e ruoli ancora per una volta, quella decisiva per crescere. Ma a volte serve arrivare ad attaccarsi, per potersi poi vicendevolmente difendere. Serve sbagliare e poi chiedere scusa, serve scontrarsi e poi ritrovarsi assieme. Quasi ad anticipare la filosofia dei monaci di Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera, o ancor più esplicitamente la prostituzione redentrice de La Samaritana, la grazia non potrà che giungere attraverso l’umiliazione dello spirito e della carne, attraverso le incomprensioni e le porte sbattute in faccia, attraverso gli scostanti divieti di usare la bacinella e il rifiuto di un ombrello sotto il diluvio, attraverso le parole al veleno e la pubblica mortificazione, attraverso i litigi e le bugie reiterate non per crudeltà e nemmeno per vendetta, ma come unico disperato modo per sbloccare la situazione, di provocare una reazione per liberare e per liberarsi. Finalmente salve, come il pesce rosso e come la tartaruga, consapevoli che ogni afflizione toccherà inevitabilmente tanto la mente quanto il corpo, ma questa volta troverà una sua tregua per lo meno almeno apparente, per lo meno transitoria. Come un istante di tenerezza, come uno sguardo d’intesa, come un sorriso condiviso. Come una palla di neve abbandonata a metà cortile, mentre le impronte tornano liberatorie verso la camera del cliente. I fantasmi di un’intera esistenza, finalmente, sono rimasti fuori, come intrappolati nella coltre bianca.

Info
Birdcage Inn, una sequenza.

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