Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica

Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica

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Tra i titoli più noti e fondanti del cinema d’impegno civile italiano anni Settanta, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica di Damiano Damiani propone un quesito etico ben radicato in un progetto di diretta denuncia civile e inscritto in una nuova idea di cinema di genere. Con Franco Nero e Martin Balsam. Gran Premio al Festival di Mosca 1971.

Sempre con molta prudenza

Palermo. In visita a un ospedale psichiatrico il commissario Bonavia ordina misteriosamente la liberazione del paziente Michele Li Puma, che ha buoni motivi di risentimento contro l’imprenditore Lo Munno, palazzinaro in odore di mafia. Li Puma tenta infatti di uccidere Lo Munno, ma la sparatoria che ne nasce vede lo stesso Li Puma tra le vittime. A indagare sul caso è incaricato il magistrato Traini, uomo del Nord di integerrima caratura, che a poco a poco stringe i propri sospetti sul comportamento del commissario Bonavia. Al fondo di un consueto intrico di interessi tra potere politico, potere economico e criminalità organizzata sembra avere un ruolo fondamentale l’assassinio di un sindacalista, che sposta il focus dell’indagine in un territorio ambiguo tra pubblico e privato… [Sinossi]

In Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (Damiano Damiani, 1971) c’è una sequenza che dà la misura della probabile importanza del film nell’Italia del suo tempo. Non che a quell’altezza temporale la mafia fosse proprio una primizia nel cinema italiano, ma di sicuro la carica dirompente dell’approccio di Damiani al tema sortì l’effetto di uno schiaffo in faccia, un durissimo risveglio alla realtà dei fatti. La sequenza vede una delle protagoniste, Serena Li Puma, interpretata da Marilù Tolo, gettata esanime in una colata di cemento, e subito dopo calata all’interno di una colonna in uno dei tanti sfaceli edilizi protagonisti di un’urbanizzazione selvaggia in alcune città del Centro-Sud. Le colonne di cemento che trasudano letteralmente sangue, alle quali si riferisce platealmente il commissario Bonavia di Martin Balsam all’esordio del film, appartengono a un aberrante dato di cronaca che mai fino a quel momento era stato narrato con la stessa conclamata evidenza visiva. In quella sequenza si contiene in nuce lo spirito più genuino del cinema di Damiani dedicato alla mafia: colpire l’occhio dello spettatore, senza perifrasi né ellissi, senza alcuna sublimazione del problema. Suscitare lo sdegno etico, sensibilizzare, denunciare tramite la più completa evidenza di fatti sanguinosi e agghiaccianti.

Il mafia-movie di Damiani non guarda mai per il sottile. È cinema popolare, spudoratamente didascalico, ai confini del qualunquismo e del luogo comune. È un cinema che racconta spesso al proprio pubblico esattamente ciò che esso vuol sentirsi dire. Rispetto ad altre opere successive di Damiani che abbiamo avuto modo di affrontare già da queste pagine, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica deraglia meno verso la riflessione astratta e metafisica rimanendo molto più legato al diretto cinema di denuncia. Certo, le pastoie della legge e della sua applicazione, i paradossi pirandelliani di una realtà sommersa sotto strati sovrapposti di finzioni incrociate sono ben percepibili anche qui, così come il solido impianto di film di genere è altrettanto confermato. È però ben più evidente l’urgenza, la necessità di dare conto di una situazione sociale, e in senso più ampio di un contesto allargato di connivenze nazionali che tutto inghiotte e tutto avvolge di impenetrabile mistero. Gli interessi narrati sono sempre i soliti, quelli consolidati a posteriori da un cinema italiano che come pochi altri ha saputo fare breccia nel pubblico e nella sua riprovazione etica. Prendendo le mosse da una vicenda di speculazioni edilizie che tengono strette in un unico groviglio istituzioni locali, politica centrale, forze dell’ordine e mafia (e in ultimo, pure la magistratura), Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica evoca una Sicilia/Italia dove il malaffare regna sovrano e qualsiasi movente di azioni criminose ne contiene inevitabilmente un altro più nascosto e più importante.

È proprio dal tema del movente che si sviluppa un quesito etico di portata più ampia rispetto alla consueta denuncia di un riprovevole sistema/Paese. Nelle due figure centrali del commissario Bonavia e del magistrato Traini viene a delinearsi un confronto serrato tra due approcci morali e professionali. Da un lato, il commissario nauseato e disilluso dalla giustizia con le mani legate che decide di farsi egli stesso strumento di giustizia; dall’altro, un integerrimo uomo di legge che si batte con tutte le sue forze perché la giustizia istituzionale conservi la propria credibilità e la fiducia della gente. Il paradosso, di nuovo, è dietro l’angolo. Poiché la giustizia italiana non gira a dovere, un funzionario dello Stato decide di passare alle vie di fatto per riaffermare un puro principio etico. D’altro canto, il magistrato integerrimo, determinato a difendere le strutture dello Stato, finisce per favorire indirettamente l’attività di un industriale mafioso poiché esso stesso è minacciato di omicidio. Se ovviamente la vendetta privata è del tutto inaccettabile, tanto più se proveniente da un commissario di polizia, dall’altro il ricorso rigoroso alla giustizia istituzionale finisce per difendere anche gli indifendibili. In un’Italia trasformatasi in un assurdo cubo di Rubik, la perdita del senso è una quotidiana minaccia.

Come spesso accade nel cinema di Damiani, che dalla denuncia nuda e cruda si sposterà progressivamente verso territori metafisici, il racconto di una realtà paradossale è condotta fino alle estreme conseguenze, producendo talvolta snodi narrativi un po’ improbabili. Ne paga un po’ le conseguenze la figura del commissario Bonavia, mosso da un tale disgusto e da un’altissima sostanza etica da trasformarsi in strumento di una vendetta di principio in difesa della memoria di un sindacalista assassinato (evidente il richiamo alla vicenda di Placido Rizzotto, fin dal nome del personaggio fittizio, Rizzo). Per il buon peso, Bonavia pare sensibile anche alle tematiche dell’antipsichiatria, filone affrontato dal film in modo tangenziale ma comunque significativo. Nel suo arrembante approccio popolare, Damiani non disdegna gli strumenti più diffusi nella narrativa di largo consumo. Così, se Bonavia è un tutto d’un pezzo sui generis, dietro al suo risentimento fluttua una corposa sostanza melodrammatica, che si allarga in realtà anche ad altre sezioni narrative e al profilo di altri personaggi – pensiamo alla figura di Serena Li Puma, all’omicidio del ragazzino testimone scomodo lanciato giù nella scarpata, a un generale approccio lacrimoso nel racconto della povera gente oppressa dalla mafia. Non è estranea al mondo espressivo di Damiani l’onda lunga dello spaghetti-western, di cui Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica raccoglie non solo il metodo lombrosiano di utilizzo di volti mostruosi/grotteschi pescati in un’ampia schiera di caratteristi, ma anche alcuni tratti specificamente stilistici che in particolare emergono nelle sequenze ambientate in un contesto di mafia campestre, dove vige un’ancestrale lotta tra uomini dominati dalla legge del più forte.

Nel cinema di Damiani sono altresì frequenti alcuni inside jokes che lasciano intravedere un progetto in divenire di riflessione sui medesimi strumenti del cinema. Pensiamo soprattutto ai legami tra Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica e Perché si uccide un magistrato (1975). Il magistrato Traini impersonato da Franco Nero in Confessione… porta lo stesso cognome del magistrato del secondo film, che propone una sorta di riflessione metacinematografica sul genere italico dell’impegno civile. Inoltre, Claudio Gora incarna in Confessione… l’infido giudice Malta, mentre lo stesso attore compare nel “film nel film” di Perché si uccide un magistrato, due personificazioni tenute insieme anche da precisi dettagli profilmici, a cominciare dalla fastosa stola di ermellino. Visto l’enorme successo di pubblico di Confessione…, che in sala si piazzò all’undicesimo posto degli incassi per la stagione 1970-71, e viste le polemiche che ne seguirono, è probabile che Damiani abbia progettato Perché si uccide un magistrato come successiva riflessione sul grande successo raccolto con il film precedente. D’altra parte, i due film sono tenuti insieme anche da una comune disamina del dualismo tra giustizia istituzionale e dimensione privata – benché, va detto, in Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica il quesito etico conservi una sincera e pregnante ispirazione, diversamente da quanto accade in Perché si uccide un magistrato che deraglia verso lidi un po’ pretestuosi.

Con il grande esito che il film raccolse presso il pubblico, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica è considerato anche tra i padri fondatori di un metodo cinematografico che dominerà, con ovvie variazioni stilistiche, il cinema d’impegno civile italiano anni Settanta. Damiani si era già dedicato al mafia-movie con il seminale Il giorno della civetta (1968), opera tuttavia inserita in un contesto malavitoso di piccola comunità agreste. Il salto definitivo nel grande malaffare metropolitano, con espansione delle connivenze a tutti i gradi del potere costituito, avviene proprio con Confessione…, che dall’ambito del fenomeno antropologico sposta il focus verso la dimensione nazionale. L’operazione sembra pure inserirsi merceologicamente in una tendenza di successo di titoli lunghi e sensazionali, a impronta variabilmente civile, inaugurata da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri, 1970) e proseguita, tra gli altri, con Imputazione di omicidio per uno studente (Mauro Bolognini, 1972), che vede di nuovo Martin Balsam come protagonista al fianco di Massimo Ranieri. Tuttavia, nel complesso di una filmografia damianiana in cui Confessione spicca tra i titoli più noti e fondanti (vinse anche il Gran Premio al Festival di Mosca 1971), vi è da rilevare che in diacronia si profila come una delle opere che più di altre ha sofferto il passare del tempo. Rimane la percezione di un film nato su una sincera e terracea necessità di impegno, ma quanto a solidità drammaturgica appaiono decisamente più convincenti opere come Io ho paura (1977) o L’avvertimento (1980). Quando insomma Damiani inizia a staccarsi dal dato bruto di una condizione sociale, sia pure inscritta nelle cornici di un nuovo e robusto cinema di genere ancora in corso di definizione, per inoltrarsi in una dimensione che da contingente si trasforma in sovranazionale, assoluta. Esistenziale. Una cupezza che abbandona anche il colore locale (ben presente ad ampie dosi in Confessione) per rileggerlo eventualmente come stilizzazione ghignante di un Potere imperscrutabile.

Info
Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica, il film completo su Youtube.

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