Perché si uccide un magistrato

Perché si uccide un magistrato

di

Il cinema italiano d’impegno civile interroga se stesso. Perché si uccide un magistrato di Damiano Damiani tenta di indagare il rapporto tra cinema/giornalismo e realtà spostando il baricentro del mafia-movie dalla diretta denuncia allo scandaglio dei medesimi strumenti di narrazione e polemica sociale. L’esito è altalenante e irrisolto, ma resta pressoché intatta la robustezza professionale di un modo di fare cinema letteralmente scomparso dai nostri radar nazionali. Franco Nero immancabile protagonista.

Il salotto buono del mafia-movie

Il regista Giacomo Solaris si trova a Palermo per presentare il suo ultimo film, «Inchiesta a Palazzo di Giustizia», in cui per vie leggermente camuffate accusa il vero giudice Alberto Traini di avere collusioni con la mafia. Il giudice Traini visiona il film ma non sembra voler ostacolare più di tanto la sua diffusione nelle sale, mentre sua moglie Antonia si mostra decisamente più risentita nei confronti di Solaris. «Inchiesta a Palazzo di Giustizia» si conclude con l’omicidio del doppio fittizio di Traini, e pochi giorni dopo l’assassinio del giudice avviene realmente. Il film di Solaris vede crescere a dismisura il proprio successo presso il pubblico, ma il regista, parzialmente colpito anche dai sensi di colpa, decide di restare a Palermo per avviare una propria indagine sulla morte di Traini… [sinossi]

Ancora Palermo. Ancora la mafia. Ancora le collusioni tra criminalità organizzata, Stato, magistratura, forze dell’ordine. Perché si uccide un magistrato (1975) prosegue un discorso ben noto nella filmografia di Damiano Damiani e introduce due inediti elementi di riflessione: la sfera privata e un tentativo di autoriflessione sullo stesso cinema italiano d’impegno civile, le sue modalità di denuncia e i suoi strumenti. Non ultimo, un filo comune che sottotraccia tiene insieme molta della produzione dell’autore friulano: il paradosso, un sostrato pirandelliano in cui verità e menzogna, rilette secondo la dicotomia meno assoluta e più contingente tra giusta giustizia e giustizia intorbidata, si ritrovano al centro di percorsi tortuosissimi per distinguersi una dall’altra. Soprattutto, il quesito intorno al quale il film si conclude è “Quanto si può forzare la verità perché essa si affermi con giuste e proporzionate conseguenze penali?”.

Nel cercare machiavelli etici che vadano oltre il puro cinema di genere e lo spettacolo d’intrattenimento, e che interroghino più profondamente la fisionomia antropologica italiana di Paese della letterale messa in scena quotidiana (la verità è sempre frutto di un negoziato), va detto subito che stavolta Damiani propone un soggetto ad altissimo rischio di improbabile. La finalità del film si delinea per un’interessante interrogazione sugli strumenti mediatici (qui cinema e giornalismo) utilizzati in quegli anni come veri e propri attori sociali, in questa occasione messi da Damiani al centro di una disamina abbastanza impietosa. Malgrado la sua consueta fisionomia di mafia-movie Perché si uccide un magistrato sfrutta in realtà le convenzioni del tempo come terreno d’indagine per una riflessione sui mezzi di denuncia e sui limiti etici che devono (dovrebbero) essere da essi rispettati. L’intento è serio, intelligente, anche abbastanza inedito. Stavolta sul banco degli imputati Damiani mira a mettere se stesso e un’intera generazione a lui coeva di autori che hanno trasformato il cinema italiano di denuncia in uno degli esiti più felici della nostra produzione anni Settanta. È altrettanto vero, però, che Damiani non riesce mai a rinunciare al suo robusto approccio spettacolare e popolare, fortemente didascalico e pure effettato, e stavolta il racconto rischia davvero di essere archiviato a poco a poco, durante la visione, nell’inefficace categoria dell’incredibile. Non si tratta tanto di proporre storie più o meno aderenti al reale. Si tratta di riuscire a rendere credibile anche l’improbabile (succedeva esattamente questo nell’assai più riuscito e corposo L’avvertimento, 1980) tramite la forza persuasiva del cinema.

Perché si uccide un magistrato si articola sui rovelli etici di un regista, Giacomo Solaris (forse un curioso omaggio ad Andrej Tarkovskij?), il cui ultimo film, «Inchiesta a Palazzo di Giustizia», appena uscito in sala, attacca direttamente le malefatte di un magistrato, il giudice Traini, platealmente accusato nel film di Solaris di avere collusioni con la mafia. Mentre Traini cerca di difendersi e si trova pure al centro di un conflitto tra due correnti/fazioni interne al partito di maggioranza locale, Solaris tenta di preservare il proprio film dal sequestro e cerca ulteriori testimonianze presso la moglie di Traini, donna affascinante e misteriosa. Il giudice viene poi assassinato, rispecchiando il finale del film di Solaris in cui il doppio fittizio di Traini andava incontro a una tragica morte. Mentre «Inchiesta a Palazzo di Giustizia» riscuote un successo sempre più straripante nelle sale, Solaris avvia una propria indagine privata sulla morte di Traini approdando a esiti ben diversi da quanto il contesto sociale poteva far presumere.

Damiani costruisce dunque uno spettacolo volenterosamente intrigante, lavorando sugli incroci tra finzione e realtà, tra realtà fittizie ricostruite in ottica di denuncia e relative conseguenze sul reale. Molto però dell’interesse di Perché si uccide un magistrato resta sulla carta e sul progetto ideato in ambito di soggetto. Ne soffre un po’ anche l’impianto di spettacolo popolare, più o meno sempre garantito nella filmografia di Damiani, che sconta qui una parte centrale faticosa, iterativa e fin troppo piegata al mélo nel rapporto tra Solaris e la vedova Traini. Damiani sembra restare con le orecchie ben attente alle tendenze commerciali italiane del tempo, proponendo tracce sia del coevo giallo psicotico (il movente del delitto è del tutto privato), sia del lacrima-movie – il bambino disabile e la sua portata melanconica. A tutto ciò non resta estraneo nemmeno il modello ormai archetipico dello spaghetti-western (Damiani ne aveva diretto uno dei migliori esempi, Quién sabe?, 1966), nei dialoghi, nei rapporti tra i personaggi, nella fisionomia idealistica e integerrima di un protagonista eroico che nel finale, dopo aver rispettato la sua inossidabile scala valoriale, si allontana solitario rifiutando l’abbraccio sia del giornalismo sia della brutta politica. Damiani raccoglie pure lo spirito estetico dei tempi concedendosi una bizzarra e inaspettata follia d’epoca, l’omicidio del mafioso Bellolampo commentato da «L’indifferenza» di Iva Zanicchi. Subito ritorna alla mente una sequenza del più o meno coevo Gruppo di famiglia in un interno (Luchino Visconti, 1974) dove in un tripudio camp Iva Zanicchi intonava «Testarda io» a commento di una sequenza timidamente erotica realizzata nella penombra. Evidentemente le canzonette della Zanicchi, in quegli anni, suscitavano follie estetiche negli autori più insospettabili. Tuttavia, in questa oliatissima macchina spettacolare che tutto raccoglie e fagocita, finisce per mancare stavolta una forte coesione narrativa, così come non è sfruttata fino alle sue estreme conseguenze la riflessione meta-mediatica che vorrebbe delinearsi per la ragione fondante del film. L’autoriflessione sul cinema italiano d’impegno civile resta monca, per metà inespressa, non scende mai verso il cuore del problema e si mantiene su una generica superficie evocante quesiti etici ai quali non si riesce mai a credere fino in fondo. Perché si uccide un magistrato non è un film teorico. Propone sì interessanti brani di film nel film, in cui gli strumenti di denuncia civile sono raccontati tramite un’estrema stilizzazione grottesca – gli scampoli di «Inchiesta a Palazzo di Giustizia» che ci sono mostrati sembrano voler ricordare più il cinema di Elio Petri che quello di Damiani. Tuttavia la riflessione di Damiani è troppo preoccupata di conservare la sua sana e robusta finalità di intrattenimento e le è praticamente impossibile avviare penetranti considerazioni sul rapporto tra realtà e denuncia. E pure il quesito etico proposto nel finale, risolto in favore della vera verità ad ogni costo da un’idealistica figura di filmmaker indagatore, è sì interessante ma non sembra incidere più di tanto sulla realtà – viene da chiedersi, in soldoni, quanti saranno stati mai nella realtà gli omicidi privati camuffati da mafiosi, ispirati dalla suggestione di un film popolare sul tema e sfruttati dalla stampa per mandare qualche criminale in galera? Fosse così facile, verrebbe da dire, il problema della mafia sarebbe già risolto da decenni. Se da un lato Perché si uccide un magistrato finisce dunque per proporre un quesito etico astratto, legato al contingente solo da un generico richiamo alla correttezza etica indirizzato ai media, d’altra parte non dispone di una tale forza persuasiva da trasformarsi in riflessione allegorica e nazionale/assoluta, garantita invece da Damiani in altre occasioni.

Intendiamoci, siamo nella grande produzione popolare italiana, sempre e comunque da rimpiangere, che era riuscita a creare un dialogo e un contatto con il pubblico decisamente irripetibili. Da decenni è pressoché impensabile un cinema italiano riccamente finanziato e confezionato con scaltro mestiere che possa permettersi di inscrivere nel film di genere diretti riferimenti alla politica istituzionale e ai suoi maneggi – nel film non si parla mai esplicitamente di DC, ma beh… è giusto un’elegante foglia di fico per avere qualche querela e denuncia in meno. A produrre Perché si uccide un magistrato troviamo di nuovo Mario Cecchi Gori, grande conoscitore di cinema e aperto a qualsiasi buona occasione di successo presso il pubblico, abbastanza immune alla paura di scomodare qualcuno. La sinergia e la serena complicità tra autori e produttori che respiriamo in oggetti di consumo di questo tipo sono quanto di più lontano dall’orizzonte italiano degli ultimi trent’anni. Didascalico, convenzionale, piegato alle macchiette e al colore locale, talvolta pure facilone e grezzotto, pronto a gettare in un unico calderone malaffare, malavita, malapolitica e malgiornalismo: ma era un cinema che sapeva parlare alla gente stimolando sdegno e comprensione di fenomeni sociali. È un cinema che si affida pure a una consolidata galleria di volti, funzionali alla creazione di un solido rapporto fiduciario con gli spettatori – qui Franco Nero, Renzo Palmer, Françoise Fabian, Elio Zamuto, e una schiera di facce da caratteristi che fanno sentire il pubblico immediatamente a casa propria. Il salotto buono del mafia-movie.

Perché si uccide un magistrato resta sì a mezz’aria, irrisolto nella sua proposta, incompiuto rispetto alle sue ambizioni autoriflessive. Ciononostante il piacere della fruizione resta pressoché intatto, forte della capacità del cinema di Damiani di proporsi come forma mediata tra cinema civile e cinema del piacere. Se i film migliori di Damiani sono da cercarsi altrove, in questo caso ci troviamo di fronte a un prodotto medio comunque pronto per la rapida fruizione di un pubblico che può anche disinteressarsi delle fumose riflessioni metalinguistiche. Vale la pena ugualmente, ché di cinema così solido e robusto non se ne vede più tanto in giro.

Info
Perché si uccide un magistrato, trailer.

  • perche-si-uccide-un-magistrato-1975-damiano-damiani-01.jpg
  • perche-si-uccide-un-magistrato-1975-damiano-damiani-02.jpg

Articoli correlati

Array
  • Cult

    l'avvertimento recensioneL’avvertimento

    di L’avvertimento di Damiano Damiani si allontana dal riferimento diretto e conclamato all’attualità sfondando verso territori allegorici e metafisici. Eccessivo, consapevolmente manierato e paradossale, è anche un film cupamente profetico sull’immutabilità tutta italiana del rapporto tra verità e Potere.
  • Cult

    l'inchiesta recensioneL’inchiesta

    di Frutto di un antico soggetto di Ennio Flaiano e Suso Cecchi D’Amico rimasto irrealizzato, L’inchiesta di Damiano Damiani sconta qualche convenzione da coproduzione italiana anni Ottanta, ma si avvale di una brillantissima idea narrativa che applica la struttura del giallo poliziesco al mistero della Resurrezione.
  • Buone feste!

    quién sabe? recensioneQuién sabe?

    di Diretto da Damiano Damiani a partire da una sceneggiatura di Salvatore Laurani e Franco Solinas, Quién sabe? sfrutta l'ambientazione nel pieno della Rivoluzione Messicana e la cornice apparentemente western per edificare un discorso politico terzomondista, anticipando l'onda sessantottina.
  • Mille Occhi 2017

    La moglie più bella

    di Ispirato alla vicenda di Franca Viola, la donna che per prima rifiutò in Sicilia il matrimonio riparatore, La moglie più bella di Damiano Damiani è un eccellente esempio di cinema civile perfettamente integrato con i codici del genere.
  • Mille Occhi 2017

    Il rossetto

    di Folgorante esordio di Damiano Damiani, Il rossetto rifletteva con acume sul cambiamento dei costumi nell'Italia dei primi anni Sessanta.