Un eroe

Un eroe

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Per la quarta volta in concorso a Cannes, e per la terza volta premiato (stavolta con il Grand Prix della giuria), Asghar Farhadi dimostra con Un eroe di aver bisogno dell’Iran per sviluppare al meglio la propria poetica espressiva. Qui il racconto ruota attorno a un galeotto che si ritrova, un po’ per caso un po’ per azzardo, a fare la “scelta giusta”…

Fa’ la cosa giusta

Rahim è in prigione a causa di un debito che non è in grado di rimborsare. Durante un permesso di due giorni tenta di convincere il suo creditore a ritirare la denuncia previa il versamento di una parte dell’intera somma. Ma le cosa non vanno come previsto… [sinossi]

Se è vero che due indizi non fanno una prova, è altrettanto vero che possono istradare il giudizio nella giusta direzione. Asghar Farhadi torna di nuovo a girare in Iran, abbandonando le pretese d’auteur all’europea racchiuse nel francese Il passato e ancor più nello spagnolo Tutti lo sanno, e di colpo ritrova il suo cinema, la piena consapevolezza della messa in scena, la capacità di riflettere su un mondo attraverso storie esemplari, metafore perfette della condizione umana. Se le giurie non sembrano notare differenze tra le diverse soluzioni produttive e logistiche – anche Il passato ricevette un premio sulla Croisette –, è abbastanza evidente come l’ingranaggio morale che guida l’intero meccanismo poetico di Farhadi si inceppi quando il regista è costretto a muoversi su un terreno “straniero”, quasi che la terra stessa fosse il fondamento dello sguardo, e quest’ultimo principiasse dall’imprinting natio. Qahremān, vale a dire Un eroe o A Hero per le vendite internazionali (traduzione letterale dell’originale persiano), è la dimostrazione palese di questo “ritorno a casa”, e del peso politico che trascina con sé all’interno della filmografia farhadiana. E il peso della coproduzione francese è meno avvertibile di altre occasioni, facendo percepire una certa libertà artistica da parte del regista. I temi d’altro canto sono tutti lì, come si vedrà tra poco: il senso di colpa relativo al passato, il dover cogliere l’occasione, la questione morale come unico modo di affrontare la società iraniana contemporanea, l’immagine pubblica che cozza con i vizi privati, o supposti tali. Tutti elementi già elaborati negli anni precedenti da Farhadi e ai quali si aggiungono una visione sulla condizione femminile – si veda il rapporto conflittuale tra la fidanzata di Rahim e il di lei fratello, che si oppone alla relazione della donna con un galeotto – e la lettura di una giustizia che è tale solo in parte, come d’altronde in tutto il resto del mondo e in qualsiasi tipo di regime istituzionale.

Farhadi sceglie per Un eroe un percorso narrativo non privo di giri di vite e ribaltoni a sorpresa – vera e propria cifra stilistica delle sceneggiature dell’autore – che però segue una linea basica, e molto semplice da seguire. Rahim è in prigione per non essere stato in grado di rimborsare il prestito che aveva ricevuto: ha un figlio con difficoltà nell’espressione orale che cresce da solo da quando la moglie ha deciso di rifarsi una vita ed è ora in casa con la sorella di Rahim, suo marito e i loro figli. L’uomo approfitta di un permesso di due giorni per contattare il suo creditore e cercare di ottenere che ritiri la denuncia – fatto che gli permetterebbe di uscire dal carcere – promettendo il pagamento di una parte del debito contratto. Questi soldi, una cifra non indifferente, Rahim conta di raggranellarli perché la sua fidanzata (segreta, nessuno sa della sua esistenza) ha trovato per strada una borsa con molte monete d’oro: vendendo le monete Rahim otterrebbe i soldi necessari per convincere il suo creditore. Ma l’uomo ha un gesto d’orgoglio, non se la sente di vendere monete non sue e mette un annuncio in cui dichiara di aver ritrovato la borsa. Dichiarato immediatamente eroe e detenuto modello, pagherà amaramente le conseguenze di questo gesto…

Come si sarà potuto notare lo schema di Un eroe è abbastanza semplice, e ruota attorno all’idea del bel gesto altruistico che finisce per ritorcersi contro colui che l’ha messo in pratica. Sotto questo profilo il film si muove su binari abbastanza canonici, tra istituzioni che cambiano faccia da un giorno all’altro, filantropi che si pentono delle proprie donazioni, e il carosello di mitologia televisiva e dei media che a sua volta non lascia più sorpresi. In un certo senso il film appare una versione semplificata dei due veri e propri capisaldi nei quali Farhadi ha squadernato le ipocrisie della società iraniana, vale a dire About Elly e Una separazione. Qui manca quella potenza narrativa, e quella capacità di scioccare al di là della superficie. Ma forse Farhadi è attratto d’altro, dall’idea di un uomo – per di più carcerato – che cerca ininterrottamente, pur sbagliando in più di un’occasione, di fare la cosa giusta: restituire i soldi trovati per caso, partecipare alle donazioni in difesa dei condannati a morte, e soprattutto evitare al figlio l’umiliazione di fronte all’intera nazione. L’eroismo è un gesto nobile quanto inutile, sembra suggerire Farhadi. Inutile perché impercepibile in una società dell’immagine che ha un’altra idea dell’eroismo, e della sua rappresentazione iconica. In questo senso il film acquista un’aura quasi western, dove la disputa tra scelta morale e scelta di legge è uno degli archetipi narrativi: la wilderness è l’Iran stesso, la società civile. La prigione è in qualche modo il rifugio, il non-luogo in cui trovare una dimensione anonima, unica speranza di vita priva di preoccupazioni. L’inquadratura finale, che in qualche modo sembra giocare con l’interno/esterno che chiudeva Sentieri selvaggi, assume così un valore ulteriore, al di là della mera sapienza estetica.

Info
Un eroe sul sito del Festival di Cannes.

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