Moby Dick, la balena bianca

Moby Dick, la balena bianca

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Tradurre in immagini Moby Dick, il capolavoro letterario di Herman Melville, è un’impresa improba, al di là di ogni possibilità di riuscita. Probabilmente ne era cosciente anche John Huston, che nel 1956 si lanciò nell’impresa trasformando il film in una speculazione sul cinema stesso, e su un mondo a un passo dall’inabissamento. Con lui, ed era inevitabile, fa parte della ciurma anche Orson Welles.

Chiamatelo Ismaele

Metà Ottocento, Nantucket. Il marinaio Ismaele, dopo aver fatto la conoscenza del “selvaggio” ramponiere Queequeg, si imbarca con lui sul Pequod, la baleniera capitanata dall’oscuro e ambiguo Achab. L’uomo, che ha una gamba d’avorio, è ossessionato dalla cattura e dall’uccisione di Moby Dick, una gigantesca balena bianca che si aggira per gli oceani. [sinossi]

“Chiamatemi Ismaele”. Per quanto nel 1851 in pochissimi se ne fossero resi conto, l’incipit di Moby Dick non segna solo un momento di svolta unico nella storia della letteratura statunitense, ma di fatto rappresenta in qualche modo la nascita di una nazione. Gli Stati Uniti creati grazie al rivoltamento nei confronti dell’ordine costituito britannico e alla rivoluzione contro l’idea di “colonia” che rappresentavano per la corona inglese non avevano, a distanza di oltre settant’anni, ancora trovato un testo che scavasse un solco profondo tra loro stessi e quella che un tempo avrebbero chiamato madrepatria. Herman Melville, lo scrivano destinato a morire incompreso dai più – al punto che una leggenda popolare vuole che perfino il necrologio venne sbagliato, attribuendogli il nome proprio Henry: una clamorosa errata corrige riportata anche da Greg Mottola in un sagace dialogo di Adventureland –, scrisse nelle oltre ottocento pagine di Moby Dick un testo filosofico in grado di trasformarsi in vera e propria Costituzione, ben più libertaria e dialettica a ben vedere di quella che portarono a un sunto i Padri Costituenti. Il cosiddetto “grande romanzo americano”, dopo il 1851, non poté che guardare insistentemente alle gesta tragiche della nave baleniera Pequod, a vagare per l’oceano alla ricerca della propria identità, e della propria oncia di grandezza mitica. Non può certo addurre allo stupore la scoperta che il capolavoro letterario di Melville fosse una delle letture preferite, se non la preferita in assoluto, di John Huston, un regista che faceva dell’orizzonte perduto la sua stella polare. Tutti i grandi navigatori del cinema statunitense, a partire da Orson Welles, vedevano in Moby Dick la raffigurazione della grandezza dell’arte come catastrofe, del raggiungimento del sogno attraverso il cunicolo incubale della perdizione, della sfida all’immateriale che si fa materia. Non è casuale, dunque, che nella ciurma allestita da Huston si ritrovi proprio Welles, e non è casuale che attingendo anche alle suggestioni rilasciate dal set – faticoso, battagliero, bellicoso, litigioso, come testimonia lo scontro perenne che si sviluppò tra Huston e Ray Bradbury, scelto come sceneggiatore ma indefesso denigratore del testo originale – il genio wellesiano estrarrà dal cappello dapprima il teatrale Moby Dick – Rehearsed al Duke of York’s Theatre di Londra (interpretando sia Padre Mapple, ruolo già vestito per Huston, sia il capitano Ahab, e anche il ruolo dell’Impresario – ovviamente inesistente nel romanzo), e quindi si getterà nell’impresa di leggere l’intero testo, facendo tutti i personaggi, ripreso in 16mm dal sodale Gary Graver. È il 1971, Welles è la balena bianca del cinema. Tutti lo inseguono per adorarlo e affondarlo a un tempo. Anche Huston forse è una balena bianca, e i due lavoreranno spesso insieme – si pensi a The Other Side of the Wind.

Chissà se Huston era consapevole dell’impossibilità di ridurre davvero il testo di Melville, su cui si può teorizzare ma che non è davvero tangibile. Perché l’azione nel romanzo non è nulla rispetto alla riflessione, alla strutturazione di un pensiero sull’umano, sul concetto di fede, sul Capitalismo selvaggio, sulla lotta tra uomo e natura, e via discorrendo. Come molti grandi capolavori della letteratura, in particolar modo quella ottocentesca, Moby Dick non può essere tramutato in altro rispetto a ciò che è. Anche per questo è commovente ciò che riesce ad allestire Huston, che già parlava apertamente di una traduzione in immagini nel 1942 e avrebbe voluto trasformare il tutto in una splendida questione privata, assegnando il ruolo del capitano con la gamba d’avorio a suo padre Walter, morto però nel 1950 a 99 anni esatti dalla pubblicazione del romanzo e quando il figlio non era ancora riuscito a mettere in piedi un piano produttivo credibile. In un mondo classico che già si sta scombussolando ai venti del moderno, Moby Dick, la balena bianca (il sottotitolo italiano serve a sottolineare il centro nevralgico della questione, forse anche per via di una conoscenza solo frammentaria del romanzo, al momento dell’uscita del film esistente solo nella liberissima traduzione di Cesare Pavese – invisa ai puristi – edita dalla torinese Frassinelli) appare come un’utopia a ventiquattro fotogrammi al secondo. Un’utopia pari a quella di Ahab, che corre impavido e folle verso la propria stessa distruzione. L’utopia di conquistare ancora Hollywood, la balena bianca, in un’epoca in cui le giovani generazioni stanno prendendo piede, spostando l’accento ai turbamenti dell’animo e della psiche. Perché il Moby Dick di Huston è una colossale, brutale e romantica presa di posizione contro il mondo in cui vive: è la dichiarazione di lotta dell’umano contro il sovrannaturale, e dunque anche contro il divino. Huston sa benissimo che il mondo in cui ha vissuto, il mondo produttivo in cui ha vissuto, sta per essere spazzato via: potrebbe mettersi in un angolo e proteggere la posizione, e invece proprio come Ahab si lancia in mare aperto – letteralmente visto che le riprese furono effettuate nel bel mezzo dell’oceano – pronto a rischiare tutto per la propria visione.

Quel che ne viene fuori è una volontaria semplificazione del romanzo (viene meno del tutto la parte inerente l’inchiesta sul commercio delle baleniere e sulle attività marinaresche, e la componente filosofica è filtrata solo attraverso l’azione pura e diretta), ma non la sua negazione. Huston si trova forse più a suo agio sulla terraferma, e non è un dettaglio secondario notare come l’incipit sia l’aspetto più riuscito e compiuto della rappresentazione, ma il suo spirito lo guida alla ventura, alla ricerca dell’assoluto e al tentativo di uccidere il Dio, di affondarlo, di resistere alle angherie del tempo in una catastrofe senza fine, ma gloriosa. Welles, ma è inevitabile, si mangia la concorrenza ed è vero probabilmente che Gregory Peck non aveva nello sguardo il grado di follia che Ahab meriterebbe – ma sulla sua interpretazione si fu fin da subito troppo drastici –, eppure come sarà anche per molte opere a seguire della filmografia hustoniana sembra di assistere a un atto assoluto di distruzione e palingenesi. Un atto che si basa sul concetto di rappresentazione, e dunque di finzione. In molti hanno sempre storto il naso di fronte alla scelta di Huston di inquadrare con tale nettezza di dettagli il leviatano da svelarne anche agli occhi più candidi la postura posticcia, e quindi la “falsità”, ma è proprio quella rivendicazione di non attinenza al reale a rendere il film un’operazione mastodontica, così clamorosamente inattuale da lasciare senza fiato, e da meritare l’immortalità di ciò che esiste sempre fuori dal tempo. L’occhio quasi umano della balena è, nella sua impressione di cartapesta, la più alta dimostrazione di fede di un film così sottilmente blasfemo: fede nel potere del cinema, che ha bisogno del mostruoso non per spaventare il pubblico ma per attribuirsi un ruolo demiurgico, quello del Narratore. Come il mostro marino su cui si chiude La dolce vita, film moderno per eccellenza, anche il cetaceo che è l’ossessione di Ahab deve essere finto, creato e non “documentabile”. Anche per questo la storia divenuta leggenda della balena costruita in studio che si perse in mare durante le riprese assume un valore metaforico, quasi struggente nel suo romanticismo. È il cinema che si disperde nelle acque e galleggia solitario, contro le tempeste e le procelle, e contro la standardizzazione dell’immagine.

Info
Il trailer di Moby Dick, la balena bianca.

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