Black Book

Black Book

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Ennesima dichiarazione d’eresia di Paul Verhoeven nei confronti del sentire comune, Black Book è un grande affresco sul tradimento umano, sulle sue infinite facce, e sull’integrità morale come unico atto di concreta rivoluzione, e di pura rappresentazione del desiderio. Incompreso alla proiezione veneziana del 2006, segna il ritorno in Europa del grande cineasta olandese dopo un ventennio trascorso a Hollywood.

Soldatessa d’Orange

Durante la seconda guerra mondiale una ragazza ebrea riesce a sopravvivere nell’Olanda occupata. Raggiunge la resistenza con l’obiettivo di vendicare la sua famiglia. [sinossi]

Nell’inverno del 1974 Tony Rayns di Sight & Sound si reca a Francoforte per incontrare e intervistare Rainer Werner Fassbinder. Di quella interessante conversazione ci sono due passaggi su cui è opportuno soffermarsi. Nel primo, quando Rayns gli chiede lumi sulla sua volontà di “provocare”, Fassbinder risponde che non gli interessa tanto la provocazione in sé, quanto la possibilità di attivare processi di pensiero: «ho pensato che se avessi portato le persone contro la loro stessa realtà, avrebbero reagito contro di essa», aggiunge il regista, per poi chiosare in modo sibillino «Non lo penso più. Ora penso che l’esigenza primaria sia quella di soddisfare il pubblico, e poi di occuparsi dei contenuti politici. Per prima cosa devi fare film che siano seducenti, belli, sulle emozioni o altro…». Nel secondo passaggio, invece, quando Rayns gli chiede se preferisce il “melodramma” al “realismo”, Fassbinder controbatte: «Non credo che il melodramma sia “irrealistico”; ognuno ha il desiderio di drammatizzare le cose che gli accadono intorno. Inoltre ognuno ha una groviglio di piccole ansie che cerca di aggirare per evitare di mettersi in discussione; il melodramma si scontra duramente con loro. Prendi un film come Come le foglie al vento di Sirk: ciò che passa sullo schermo non è qualcosa con cui posso identificarmi direttamente nella mia vita, perché è così genuino, così irreale. Eppure dentro di me, insieme alla mia stessa realtà, diventa una nuova realtà. L’unica realtà che conta è nella testa dello spettatore». In entrambe le risposte Fassbinder torna dunque su un concetto basilare, mettere in atto azioni dialettiche che costringano l’altro – l’attore, la troupe, il pubblico, la critica, è lo stesso – a scontrarsi con qualcosa, a sentirsi in difficoltà, e dunque a reagire. Un atto di ribellione a un’imposizione (l’immagine è libera e dittatoriale allo stesso tempo, per questo è un perfetto veicolo di propaganda) che produca senso, ma anche virulenza. Teoria e prassi. È difficile non pensare a Fassbinder durante la visione di Black Book, il film che riportò in patria Paul Verhoeven a ventuno anni di distanza da Flesh+Blood (L’amore e il sangue è il titolo italiano) il grande racconto rinascimentale con cast internazionale che gli aprì le porte di Hollywood. Un ritorno a casa accompagnato da un certo scetticismo, e da un profondo grado di incomprensione: nel settembre 2006, quando venne presentato in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Black Book fu accolto con freddezza alla proiezione stampa, con tanto di contorno di fischi, per poi essere posto immediatamente sullo scranno dell’accusa, un po’ come la protagonista di Benedetta, il suo ultimo film presentato lo scorso luglio a Cannes e ancora privo di una data di distribuzione per quel che concerne l’Italia. Non si può non tornare a Fassbinder, durante la visione di Black Book, e ragionare ancora sul concetto di attivare percorsi cognitivi che costringano gli spettatori a mettere in dubbio il loro modus cogendi.

Si riparta da una domanda: per quale motivo una parte consistente della stampa rimase fredda di fronte al racconto di Rachel Stein, ragazza ebrea che fugge dalla Germania nazista per rifugiarsi nei vicini Paesi Bassi e prendere parte alla resistenza? Il biasimo nei confronti del film si arroccò attorno al concetto di qualunquismo. Nella pratica si incolpava Verhoeven di non aver reso giustizia alla guerra di liberazione olandese contro il nazismo, equiparando nei fatti le SS e i partigiani, i carnefici e le vittime, i cattivi e i buoni. Da qui l’accusa di superficialità, forse perché come scrisse Fabio Ferzetti su “Il Messaggero” al momento dell’uscita in sala del film nel febbraio 2007 (che pure ne difende la forza delle immagini): «Più hollywoodiano degli hollywooditi, [Verhoeven] è pronto a tutto per lo spettacolo». Nulla di cui stupirsi più di tanto, dato che il regista olandese vive un rapporto difficoltoso con la critica fin dagli esordi, Gli strani amori di quelle signore e Fiore di carne, una relazione conflittuale che ha raggiunto l’acme dello scontro durante il periodo hollywoodiano, quando Showgirl e ancor più Starship Troopers vennero messi alla berlina quasi all’unanimità. Nel secondo caso la colpa era la stessa di Black Book, vi si avvertiva una fascinazione nei confronti del nazismo e del fascismo. Il punto, forse, è che l’immagine non è più vista come un veicolo di senso, ma solo come la rappresentazione oggettiva di ciò che appare. Si è dunque perso il senso stesso del cinema, e ritorna una volta di più opportuno segnarsi nella memoria la succitata intervista a Fassbinder. Non è l’immagine di Verhoeven a essere superficiale, ma è il sistema culturale che deve decriptarla a essersi semplificato fino all’osso, e dunque a essere divenuto – lui sì, davvero – superficiale, epidermico, incapace di comprendere e accettare la stratificazione del discorso. Furono d’altro canto molti i titoli della Venezia del 2006 a rimanere incompresi, oggetti difficili da maneggiare per un mondo già proteso verso la eradicazione di ogni sedimentazione dialettica: si pensi a Mushishi di Katsuhiro Ōtomo, Cuori di Alain Resnais, Quei loro incontri di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, I don’t Want to Sleep Alone di Tsai Ming-liang, Syndromes and a Century di Apichatpong Weerasethakul, perfino il Leone d’Oro Still Life di Jia Zhangke (la cui proiezione stampa venne bellamente saltata da una parte consistente dei quotidianisti, a conferma della frattura tra la responsabilità dell’analisi critica e l’accettazione del “non già noto”). Già nel 2006 il cinefilo medio si approccia a Black Book leggendovi solo ciò che l’immagine nella sua immediatezza rilascia, senza provare a confrontarvisi. Non senza accettare la scossa o provocazione che dir si voglia, ma direttamente senza percepirla, comprenderla. Così la storia di Rachel diventa “solo” (si fa per dire, ma su questo punto si tornerà tra poco) un action dall’incedere dinamitardo che sfrutta il film di guerra per perdersi in languori simil-erotici.

Di azione senza dubbio Verhoeven ne inserisce da vendere, ma davvero si può pensare che lo spettacolo sia una colpa? Non deriva dunque il latino spectacŭlum dal verbo spectare, e dunque “guardare”? La colpa di Verhoeven non è forse quindi quella di osare ancora, nell’era della bidimensionalità, guardare nella profondità insondabile delle cose umane? Non c’è dubbio che sia un film di guerra, Black Book, perché ne riprende ritmo, stilemi, situazioni, svolte. Lo è narrativamente, e quindi sotto il profilo apparentemente strutturale: d’altro canto il regista torna a lavorare in fase di sceneggiatura con Gerard Soeteman, corresponsabile di tutte le produzioni olandesi di Verhoeven, compresi i televisivi Floris (1969) e All Things Pass (1981). In un certo senso Black Book compone una trilogia possibile con Soldato d’Orange e All Things Pass, essendo tutti e tre i lavori concentrati sull’Olanda, e sulla sua dolorosa storia a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Sono tre lavori che si focalizzano sulla lotta partigiana non come assoluto ideologico ma come un punto morale, una prospettiva filosofica che non può non comprendere la lotta armata contro un predatore famelico e crudele. Ma se i ragazzi di Soldato d’Orange hanno ancora una visuale chiara dopo la fine del conflitto armato, e possono pensare di ricostruire un Paese, questo destino nel film del 2006 non è possibile per Rachel, in quanto ebrea. La sua morale la porta in modo cristallino a immolarsi in tutto e per tutto per la “causa”, accettandone ogni rischio possibile, a partire dalla morte fino ad arrivare alla gogna collettiva, quella cui è sottoposta dopo la guerra, quando è “tornata la libertà”. Per permettersi tutto ciò a Verhoeven non può bastare la coperta bellica, e deve scendere al di sotto di quella coperta, denudare l’immagine e i suoi protagonisti, mostrare la falsità perfino nel colore del pelo pubico. Perché in un mondo dominato dal tradimento, anche degli affetti più cari, e dalla sopraffazione subita dalle falangi più deboli della società, non si può che sopravvivere fingendo, e la verità (quella del talamo che è però anche verità dell’io, dell’intimità più struggente e dunque più pericolosa) è solo un’illusione che va incontro alla tragedia, e alla dissoluzione.

Come già in Soldato d’Orange anche in Black Book Verhoeven costruisce una cornice temporale nella quale muovere la sua riflessione sull’umano e sul desiderio che diventa giocoforza anche rilettura della Storia. Così il film inizia e finisce in un altro tempo e in un altro luogo, in un kibbutz – sogno socialista collettivo di una nazione, Israele, che tradirà a sua volta quell’ideale – che è tana più che casa, rifugio antiaereo per un mondo che continua a essere bombardato. Non esiste via di scampo per Verhoeven, e se si sposa con purezza una causa si resta integri (e dunque vivi) ma eternamente braccati. Il cerchio narrativo che racchiude il cuore pulsante del film, è in realtà la chiave d’accesso reale per comprendere il punto di vista del regista, il fallimento di un’Europa che ha sostituito centralità del potere a centralità del potere, senza in realtà modificare nel profondo il sistema, e dunque senza mettersi in crisi. Quella crisi che, come scritto dianzi, Verhoeven pretende dai suoi spettatori ma che è anche crisi della protagonista (una splendida Carice van Houten, fedele sodale di Martin Koolhoven ma non in grado in seguito di replicare questo exploit attoriale) e crisi dell’immagine stessa: la nettezza dei colori, per lo più il rosso e nero, che domina le sequenze che vedono Rachel infiltrata tra i nazisti e successivamente amante – dapprima per utilità, ma in seconda battuta sinceramente – dell’Hauptsturmführer Ludwig Müntze, sovrasta il grigiore del quartier generale della resistenza. L’estetica è a sua volta portatrice di crisi, di dubbio, di necessità di reagire alla propria realtà, e quindi anche al proprio gusto, al concetto stesso di bellezza. Come già nel sottostimato Showgirl, anche in Black Book il travestimento diventa l’unico accesso possibile alla verità intima, alla profondità nella rappresentazione di sé che inevitabilmente è motore rivoluzionario, e destabilizzante dell’ordine costituito. Verhoeven mette in scena un racconto materico, che fa degli elementi (l’acqua, le armi, il sangue, la guerra) non un oggetto di spettacolarizzazione, come gli viene addebitato, ma al contrario di speculazione sull’umano. Rachel Stein/Ellis de Vries progredisce, avanza, si muove nella spazialità e nella temporalità, ha un flashforward ad attenderla. La Storia no, perché una volta che le viene attribuita un’immagine essa non può che cristallizzarsi. Verhoeven osa ribellarsi a quest’idea preconcetta della rappresentazione della Storia, e lo fa attraverso un fiammeggiante mélo/noir che sprofonda nelle viscere di una narrazione collettiva che ha sempre voluto vedere nel nazismo l’unica scaturigine di una tendenza antisemita che il regista invece attribuisce alla sua terra come fattore preesistente, ed eternamente sotterraneo. Non è più tempo per queste sottigliezze, però, e anche Fassbinder oggi sarebbe destinato alla gogna, come lo fu Verhoeven nel 2006, e come lo fu Rachel nell’Olanda finalmente libera, e di nuovo democratica.

Info
Il trailer di Black Book.

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