Benedetta

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L’atteso ritorno alla regia di Paul Verhoeven, Benedetta, è un beffardo studio sulla fede come atto di rappresentazione e idolatria, e sulla vita come perpetuo mercimonio e punto d’incontro tra desiderio e calcolo. La natura goliardica ed estrema di alcune scelte (le visioni di Benedetta, nelle quali Gesù Cristo decapita avversari a colpi di spadone, sono esemplificative in tal senso) potrebbe far storcere il naso a qualcuno, ma è di opere simili che il cinema di oggi ha disperato bisogno. In concorso a Cannes.

Atti di devozione

Durante il Diciassettesimo secolo, mentre la peste si propaga in Italia, la giovanissima Benedetta Carlini si unisce alla suore del convento di Pescia, nel pistoiese. Nonostante la sua giovane età, Benedetta è capace di compiere dei miracoli e la sua presenza all’interno della comunità ecclesiastica cambierà radicalmente la vita delle suore. Un giorno poi al convento si presenta una giovane pastorella vessata dal padre, Bartolomea, e chiede di essere accolta a sua volta… [sinossi]

Benedetta Carlini compie il suo primo “miracolo”, o per meglio dire testimonia la sua vicinanza a Dio quando ancora bimbetta riesce a sventare il furto di una preziosa collana della madre da parte di una banda di briganti facendo defecare un uccellino sul viso di uno dei criminali. Il confine tra divino e goliardico, tra lettura di fatti casuali e dichiarazione di fede è labile fin dalla primissima sequenza del nuovo film di Paul Verhoeven, che approda in concorso al Festival di Cannes così come avrebbe fatto dodici mesi fa, visto che il film era pronto già da tempo. La partecipazione alla competizione sulla Croisette probabilmente alimenterà quel dibattito critico che da troppo tempo ronfa sornione, risvegliando un tentativo di analisi che superi la mera scelta di campo tra “bello” e “brutto”. Di questi tempi sarebbe davvero un miracolo, degno della giovane suora teatina, già raccontata dalla letteratura, a partire dal saggio di Judith Brown Atti impudici, che trentacinque anni fa affrontava la questione della mistica femminile legandola alla passione erotica e al lesbismo. Tutti temi che prende di petto anche Verhoeven, perché in un certo qual modo Benedetta è una drammatizzazione – grondante eccessi, come si scriverà tra poco – del testo di Brown. Il regista olandese si affida in gran parte al gruppo di lavoro che lo aveva accompagnato nella realizzazione di Elle, e forse non è casuale che i due film sembrino parlarsi in maniera così aperta. In entrambi i casi il personaggio principale – lì l’editrice di videoludica Michèle Leblanc, qui la suora Benedetta Carlini – raggiunge una posizione apicale in modo del tutto autonomo, gestendo poi il potere con una estrema libertà; in entrambi i casi il concetto di desiderio si esprime in una dialettica tra dominio e sudditanza; in entrambi i casi la ricerca è anche di una rappresentazione di sé al di fuori della propria identità.

Per quanto sia facile che qualcuno si esprima nei confronti di Benedetta facendo ricorso all’aggettivo “blasfemo”, quest’ultimo non riesce a cogliere in profondità il senso di un’opera così volutamente rabbiosa, vitale perché brutale, estrema nelle sue conseguenze. La blasfemia altro non è se non un attacco dissacratorio, la messa alla berlina del sacro in quanto tale: elemento che sicuramente fa parte della drammaturgia allestita da Verhoeven, ma solo in modo laterale. Ovvio che mettere in scena Gesù come un vendicatore armato di spada che fa fuori senza pietà le figure che nel sogno minacciano l’integrità di Benedetta sia una scelta forte, ma fermarsi all’idea di una pernacchia nei confronti della dottrina cattolica sarebbe davvero limitante. Verhoeven non è blasfemo, perché semmai ama tratteggiare con estrema perfidia un mondo ecclesiastico interamente dominato dal mercimonio, in cui ogni cosa ha un prezzo e tutto è acquistabile e vendibile alla bisogna, con l’unica differenza rispetto alla tratta del bestiame che non c’è bisogno di una stretta di mano per sancire gli accordi (così dice suor Felicita, la badessa che si vedrà scalzata nel ruolo dalla rampante Benedetta). Ma a interessare davvero il regista è il discorso sulla fede, e sulla necessità di una rappresentazione credibile per far sì che il popolo ne sposi la causa. Per quanto tutto resti nel campo dell’ambiguità, e il film non sposi in nessun modo un punto di vista chiaro e inappellabile – come d’altro canto Verhoeven ha fatto nell’intero corso della sua filmografia – è legittimo supporre che Benedetta debba ricorrere agli “effetti speciali” per compiere il proprio percorso, convincendo dapprima le consorelle (non tutte, va detto, ma il raziocinio è strumento poco utile di fronte alla massa) e quindi l’intera cittadinanza di Pescia, il borgo del pistoiese teatro della vicenda anche nella realtà storica. Non è in fin dei conti l’atto di Benedetta un esempio delle necessità del cinema, della sua capacità o meno di dialogare con il popolo/pubblico?

Verhoeven non ha timore di spingersi in territori prossimi al trash, come dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio tanto le svisate oniriche delle visioni di Benedetta (serpenti che le saltano addosso, uomini che le saltano addosso, sempre con l’intervento da deus ex machina di Gesù, l’oggetto dell’amore e del desiderio – nel film i due elementi non sono mai scindibili) quanto l’espediente che Bartolomea, la novizia amante di Benedetta, mette in piedi per far raggiungere l’orgasmo alla badessa, e che ha per utensile la statuetta di legno di una Madonna. Ma queste prese di posizione, che spingono il film in direzione del popolare, servono a discettare di desiderio e calcolo politico, di rappresentazione, di dominio del proprio corpo e del corpo altrui, e di fede come elemento salvifico, anche quando tracima oltre i confini del delirio. “Provavi desiderio per la badessa?” è quel che il laido nunzio apostolico interpretato da Lambert Wilson chiede a Bartolomea durante il processo per eresia e comportamento immorale. “Quello che provo è amore” è la risposta della giovanissima. Il desiderio come forma di puro amore, sublimazione dell’idea nell’atto, e anche attribuzione di fede: fede nel corpo dell’altro o dell’altra, fede nella propria visione del mondo, fede in qualcosa che sappia guidare e indicare la via. Verhoeven, che ha spesso utilizzato l’escamotage del cinema di largo consumo – per il quale nutre un evidente e specchiato rispetto – per approfondire la propria visione filosofica, morale e politica del mondo, fa di Benedetta un sardonico ma lancinante studio della brama come sentimento legittimo perché ultra-umano, eppur spietatamente carnale. Non esiste metafisica per Verhoeven, i corpi bruciati bruciano, la pandemia dilaga mostrando i suoi segni sulla nuda carne, si defeca e la vagina si lubrifica durante l’eccitazione erotica. Esiste però l’umano che sa ergersi al di sopra di sé, tentando la via dell’onirico e del perturbante. E questo il cinema deve raccontare, non per scegliere una parte ma per dispiegare in pieno le proprie forze. Che per la Settima Arte, che fa dell’immateriale la sua trasmissione di desiderio, sono sempre miracolose.

Info
Il trailer di Benedetta.

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