Still Life

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Still Life, parto geniale del regista cinese Jia Zhangke, vince a sorpresa il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 2006. Un evento a suo modo epocale.

Cina: anno Zero o Tremila?

Un uomo arriva nella valle delle Tre Gole in cerca della moglie e della figlia. Si fa assumere come manovale per demolire palazzi e palazzine che verranno sepolti dalle acque non appena verrà costruita la diga. Anche una donna è alla ricerca del suo uomo… [sinossi]

Difficile sopire ancora adesso la soddisfazione per il verdetto della giuria alla 63esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Infatti, tra lo smarrimento dei più, il minuscolo Jia Zhangke si è visto consegnare il Leone d’Oro per il suo Still Life (San xia hao ren), film sorpresa del Concorso. Non diversamente ci scappa tuttora un sorriso al pensiero di titoli e articoli della maggior parte dei quotidiani italiani, sconcertati perché avesse vinto un cinese “piccolo piccolo”, a cui si sarebbe dovuto per forza preferire un italiano, il solito ultimo film di Gianni Amelio, giusto per fare un nome: “Tanto parlava della stessa cosa”!
Si trascurava di considerare che Still Life e La stella che non c’è trattano sì un tema simile (cercare qualcuno/qualcosa in Cina), ma lo fanno in modo completamente diverso. E quel che rende di retroguardia (o almeno chiuso in se stesso) il discorso di Amelio è già nel suo “occhio”, sempre più fintamente documentario e sempre più puntato sull’aspetto “mitico” del tema del viaggio. L’interesse di Amelio non sta nel raccontarci la Cina – crediamo – quanto piuttosto nell’esaltare, a imperitura memoria, la presunta “buonavolontà” (questo è il presuntuoso cognome del personaggio di Castellitto) dell’homo italicus.

Se si volesse trovare un terreno di incontro-scontro tra i due titoli, niente di più facile che soppesarli sulla bilancia neorealista. La stella che non c’è perciò calza volentieri il côté melodrammatico di quell’idea di cinema, che ne rappresenta senz’altro l’aspetto oggi più invecchiato; punta insomma a enfatizzare. Still Life, piuttosto, sottrae ogni punta emotiva al dramma. Non a caso uno dei pilastri del cinema di Jia sta nel lavorio costante su un tono basso, come delle note su cui non si deve spingere mai troppo a fondo. Il che non esclude la partecipazione e, perché no?, la commozione dello spettatore, che anzi, laddove si accetti il meccanismo, risulta esaltata piuttosto che sminuita.
Se in altre occasioni (Unknown Pleasures) abbiamo parlato di tendenza bressoniana, oggi, alla luce di questo film e di The World (Shijie, 2004) probabilmente è più esatto trovare nel minimalismo un mood vagamente confacente alla messa in scena di Jia.
In ciò sembra decisiva quella venatura ironica che traspare dai suoi film, pur tenendo ferma la cornice drammatica. Se pensiamo a The World, non può non venirci in mente che i due personaggi morti nel finale subiscono la beffa di uno scambio di identità; una sorta di sarcasmo amaro e lugubre. Oppure si pensi allo straordinario dialogo a due in Still Life, in cui il ragazzo si rivela un insospettato nostalgico dei tempi andati, un paladino della memoria. Alla curiosità dell’amico adulto, il teenager risponde che ha imparato a rispettare il passato dalle parole che Chow Yun-fat proferisce in The Killer (1989). La risposta crea nella nostra mente un cortocircuito che è tratto tipico del comico: la Cina continentale ora come ora deve prendere esempio dai sempre deprecati capitalisti-americanofili hongkonghesi se vuole salvare la propria tradizione? Diventa allora evidente che quella tradizione non c’è più.
In Unknown Pleasures (2002) si sottolineava più volte un confronto con il cinema americano di genere (Tarantino soprattutto), quale irraggiungibile termine di paragone, tanto che si potrebbe definire il terzo film di Jia una parodia volutamente mancata del film d’azione hollywoodiano. Oggi invece quei riferimenti sono spariti e al massimo vengono traslati sull’action hongkonghese. Ne esce un discorso più amalgamato, più coerente: una appellazione diretta alla Cina e alle sue contraddizioni.

Detto ciò, dal 2002 a oggi, salta agli occhi la rapidissima evoluzione del cinema di Jia. Innanzitutto riconosciamo una maggiore sicurezza – che è quasi sfrontatezza – nell’affrontare i soggetti: ora ci si pone faccia a faccia con la condizione cinese, mentre prima si agiva più velatamente, parlando d’altro. Ma anche lo stile è maturato: il pur notevole discorso sul piano-sequenza che era centrale in Unknown Pleasures viene superato oggi: non più frutto dell’ostentazione, ma approdo naturale, per via di una sorta di “essenzializzazione”. Detto in altri termini, le inquadrature lunghe di Still Life si riconoscono per la loro efficacia solo a una seconda visione, quando si nota la sicurezza millimetrica e la oculata ratio nella ritmica alternata tra movimenti dei personaggi e aggiustamenti della camera.
Se torniamo perciò al neorealismo, ci viene da dire che Jia Zhangke è tra i pochissimi autori del cinema contemporaneo capaci di incarnare una precisa pratica di cinema della realtà (il parlare ora di minimalismo ora di neorealismo non è per via di ascendenze da rintracciare, quanto in cerca di tracciati interpretativi per questo cinema, un aiuto alla sua definizione).

Qui allora il reale è la diga, è qualcosa che sta annegando tutto, e dunque la finzione deve essere costruita: è una assoluta necessità. Il nodo del film, dunque, va rintracciato in una lotta drammatica tra l’informe e la forma, tra la distruzione che arriva per mano umana e la volontà di altri uomini (e tra questi il regista) di mantenere un legame, di trovare un’altra persona, di trovare una storia, quindi una messa in forma, uno stile, che è insomma un modo per mantenersi vivi.
Gli ultimi due film di Jia si muovono esplicitamente sul terreno della de-formazione della nostra contemporaneità, altrimenti definito lo sprawl, termine urbanistico che sta per “distendersi in modo scomposto”. È quel che succede da diversi anni all’impazzita crescita cinese, che sta rapidamente omologando il paese al resto del mondo; una corsa verso la catastrofe che probabilmente è già arrivata, è già tra noi. Jia ha la forza di affrontare di petto un argomento siffatto, quando in pochi ci provano e ancora di meno sono quelli che ci riescono.
Probabilmente l’unico modo per fare oggi un cinema del reale sta nel trovare qui, nello sprawl, un terreno dove lottare per la messa in scena e dove, in più, al reale si incorpori per necessità la sua rima baciata, il digitale. Non è un caso che Jia, proprio a partire The World, filmi in HD e non solo: non si fa problemi a usare gli effetti speciali. Il che può anche far storcere il naso ai puristi dell’immagine “veritiera”, “verificabile”.

È vero, a suo tempo avevamo espresso diversi dubbi sulla riuscita di The World, dubbi che del resto vanno confermati: lì era mancato il tratto fondante del cinema di Jia, l’attesa di un evento, qualsiasi esso sia, circondati nel frattempo dall’incertezza. In Still Life invece l’attesa di un qualcosa di impreciso, di nebuloso, diventa tensione verso l’ineluttabile. Dunque, quel che nei suoi primi tre lungometraggi si manifestava sia come peso sulle spalle di personaggi che si muovevano eternamente indecisi, sia come funzione della messa in scena (i piani-sequenza “bloccati” e traballanti), qui diventa fato che arriverà necessariamente a colpire. Perciò il modo di ripresa è nitido, rigoroso e perciò i personaggi hanno poco tempo e devono per forza dargli una forma. Ecco perché crediamo che l’urgenza sia il tratto che fonda Still Life, rendendolo a tutt’oggi il miglior lavoro del suo regista.
Dunque sia The World che Still Life mettono in scena un luogo fuori scala, due diverse facce dello sprawl: il parco-mondo, grottesca riproduzione in miniatura dei monumenti mondiali, e la diga, luogo che serve da carburante per altri luoghi, spazio non più vivibile, ma solamente motore di qualcos’altro. Lo scarto tra i due luoghi è facile da cogliere: il primo è una sorta di motore immobile da cui prendono vita dei personaggi che sono già condannati alla nascita; il secondo invece è animato, è una specie di mostro che attacca i personaggi, non lo si vede concretamente ma lo si respira nell’aria.

Alla riuscita di Still Life ha contribuito senz’altro il documentario che lo ha preceduto – o meglio che lo ha accompagnato –, East (Dong, 2006), anch’esso presentato alla 63esima Mostra di Venezia, nella sezione Orizzonti. I due lavori, pur indipendenti, si alimentano l’uno con l’altro, tanto che non è difficile riconoscere diverse inquadrature che appaiono in entrambi. Si pensi anche che uno dei personaggi secondari di East diventa in Still Life il protagonista maschile. E l’operazione può ricordare in parte il legame che tiene insieme In Public (2001) e Unknown Pleasures (2002).
D’altronde, questi due prodromi (East e In Public) dimostrano, nel loro “studiare il terreno”, come i film di Jia nascano prima di tutto da un luogo. Lo conferma già dal titolo (o dai titoli) il film vincitore del Leone d’Oro: infatti se San xia hao ren si potrebbe tradurre “i buoni delle Tre Gole”, Still Life, “natura morta”, è ancora più diretto e insieme più enigmatico e più evocativo. Ci ricorda ad esempio che nel documentario gemello East il protagonista è un pittore che fa dei ritratti: da qui possiamo pensare che la natura morta vada rintracciata in quei paesaggi destinati a essere sommersi dalle acque. Oppure può venire in mente la banconota in cui è riprodotta la Valle delle Tre Gole, immagine che nel film viene confrontata amaramente con il nuovo non-paesaggio, ora lacustre (e anche qui ha buon gioco una scena malinconicamente ironica).
Ma lo still life è anche in quelle costruzioni che vengono demolite prima di essere sommerse, altro segno mortifero e insieme di disfacimento e di de-formazione. O infine si può pensare a degli oggetti perduti che vengono raccolti, posizionati su di un tavolo e dunque ritratti: magari possono tornare alla vita. È il caso dell’oggettistica che arriva a dare il titolo a ciascuno dei quattro capitoli che struttura il film: 1) sigarette; 2) liquori; 3) tè; 4) caramelle. È da questi oggetti scampati al disastro che si può tornare a sperare in un legame tra i personaggi, poiché vengono scambiati e condivisi; è anche attraverso di essi che si può rinascere. Ma chissà, può anche darsi che quei residui abbiano lo stesso senso metonimico degli oggetti che un cadavere aveva indosso al momento del decesso.

Sono cose che comunque possono ritrovare il senso che avevano perduto, oppure possono cambiare di segno. Non troppo diversamente allora vediamo la rovina di un palazzo che si anima all’improvviso e vola via verso lo spazio (grazie agli effetti digitali), oppure vediamo un uomo che fa l’equilibrista su un filo elettrico. Altra vita degli oggetti, altro sentire dello spazio, altro modo di abitare, ma anche cenno di surrealtà che ad alcuni ha fatto sorridere. Eppure si tratta solo di un passo ulteriore che rende palpabile quel senso immanente di fantascienza, che forse è ormai l’unica chiave per pensare la Cina contemporanea. Residui di realtà e sci-fi: probabilmente non ci rimane altro.

Info
Il trailer francese di Still Life.
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