Bussano alla porta

Bussano alla porta

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Un film di scelte, di fede, di confini da superare, di rifugi da abbandonare, come le opere di M. Night Shyamalan sono (quasi) sempre state. Speculare a E venne il giorno, Bussano alla porta è un blockbuster minimalista, umanista, un fantasy neorealista. Un altro plausibile tassello dello shyamalanverse, forse l’unico verse possibile.

La scelta di M.

Mentre sono in vacanza in una baita isolata, una bambina e i suoi genitori vengono presi in ostaggio da quattro sconosciuti armati che chiedono alla famiglia di compiere una scelta impensabile per evitare l’Apocalisse. Con un accesso limitato al mondo esterno, la famiglia deve decidere in cosa credere prima che tutto sia perduto… [sinossi]
Devi percepire l’integrità in tutte le scelte.
– M. Night Shyamalan1

Rimesso in piedi dalla Blumhouse e da The Visit, M. Night Shyamalan è oramai tornato a pieno regime, come aveva già ampiamente dimostrato coi successivi Split, Glass e Old. Rientrato forse definitivamente in una dimensione narrativa ed estetica a lui più congeniale, lontanissima dalle tentazioni danarose dei blockbuster fracassoni e dalla sfortunata parentesi de L’ultimo dominatore dell’aria e dello smithiano After Earth, Shyamalan plasma e tradisce a suo modo le pagine del romanzo La casa alla fine del mondo (The Cabin at the End of the World) di Paul G. Tremblay e ci pone di fronte al punto di intersezione tra la realtà e il mito, tra quello che vediamo e quello che crediamo – con tutta la sovrastruttura stordente dell’informazione, vera o falsa che sia. Impreziosito da un ottimo cast, in primis l’imponente Dave Bautista, Bussano alla porta è un condensato di suspense, un’ennesima lezione sulla messa in scena, sull’importanza dei movimenti di macchina, anche i meno appariscenti, sull’utilizzo e la valorizzazione del fuori campo – qui il fuori campo, un po’ come in Signs, The Village e E venne il giorno, abbraccia a un certo punto tutto il mondo esterno.

«Devi fare una scelta». Un film di scelte, di fede, di confini da superare, di rifugi da abbandonare, come le sue opere sono (quasi) sempre state. Speculare a E venne il giorno nel tracciare il destino dell’umanità, Bussano alla porta è un blockbuster minimalista, umanista, un fantasy neorealista. Un altro plausibile tassello dello shyamalanverse, forse l’unico verse possibile. Qui ritroviamo quel quotidiano sovrannaturale che permeava Unbreakable e l’intera trilogia, col medesimo distillatissimo svelamento. Con meno slanci spettacolari (ma ci sono, annichilenti nel loro tagliente realismo) di un’altra opera che mescola anche esteticamente mitologie e cruda realtà, il graphic novel American Gods, Bussano alla porta ci porta per l’ennesima volta di fronte a uno specchio, a noi stessi, e a domande apparentemente semplici ma irrisolte.
Spiazzati come Ivy nel finale di The Village, chiamati a mettere in discussione quello che abbiamo sempre visto e creduto (e creduto di vedere), a rielaborare i segni sparsi un po’ ovunque (come sulle scatole di cereali di Lady in the Water), non possiamo che arrenderci come gli stessi barcollanti personaggi di fronte alla portata anche culturale e politica di Bussano alla porta, e più in generale di gran parte della filmografia shyamalaniana. In questa e nelle altre opere c’è una costante lettura della contemporaneità, di tutte quelle pulsioni spesso non percepite o sottostimate, delle ferite post-11 settembre e adesso post-pandemia. Mai moraleggiante, Shyamalan viene a stanarci dopo la clausura pandemica, rintanati nel nostro guscio, convinti che sia tutto finito: invece, là fuori, la vita con tutte le sue contraddizioni, con tutta la sua banale straordinarietà, continua a scorrere e a incombere.

Attratto da scelte definitive e improcrastinabili, Shyamalan rilegge il suo film citando La scelta di Sophie e La parola ai giurati, ricordandoci quindi la sostanziale inutilità di molti orpelli spettacolari e narrativi: una compattezza, una «integrità», che si riflette anche nelle scelte tecniche ed estetiche, a partire da paletti autoimposti sul piano formale («Preferisco limitare il linguaggio […] anche con la tavolozza dei colori siamo molto limitati»). In questo senso, anche nella scelta pratica di utilizzare delle lenti degli anni Novanta, Bussano alla porta segna l’ennesimo ritorno al passato, a un cinema più diretto e sincero, meno artificioso; a un cinema che non si rintana dietro a una fiumana di pixel ma che utilizza pienamente e consapevolmente il proprio linguaggio, restituendo pieno valore al tempo, agli stacchi, a ogni singola inquadratura e movimento di macchina.
Come Leonard e come Eric, anche Shyamalan si interroga sulle proprie scelte, anche lui segue una fede, una mitologia, riesce a vedere oltre, evocando immagini e immaginari. Il piccolo miracolo di Bussano alla porta non è di riuscire a evocare l’Apocalisse in uno spazio chiuso e limitato, ma di riuscire in pochi metri quadrati a far deflagrare la potenza estetica e narrativa del linguaggio cinematografico.

Note
1 Dall’incontro di M. Night Shyamalan con la stampa a Roma, Hotel de Russie, del 22 gennaio 2022 per il tour di presentazione di Bussano alla porta. Idem i virgolettati citati nel testo.
Info
Il trailer di Bussano alla porta.

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