Stranizza d’amuri

Stranizza d’amuri

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Ispirato alla storia vera del delitto di Giarre, avvenuto nel 1980 ai danni di una coppia di ragazzi omosessuali e rimasto impunito, Stranizza d’amuri è un gran bell’esordio alla regia per Giuseppe (detto Beppe) Fiorello, che confeziona un’opera prima mossa da sincero afflato civile e irrobustita da un’apprezzabile capacità di analisi psicologica, culturale e socio-antropologica.

Eravamo quattro (esecrabili) amici al bar

Sicilia, estate 1982. Mentre l’Italia si appresta a vincere il suo terzo Mondiale di calcio, i giovani Gianni e Nino si conoscono per caso a seguito di un incidente in motorino che li ha visti entrambi coinvolti. Gianni è appena uscito dal riformatorio dov’è stato rinchiuso per essersi concesso ad atti omosessuali, lavora nell’officina del patrigno ed è continuamente sbeffeggiato dai compaesani per il suo orientamento affettivo, mentre Nino aiuta suo padre nell’attività di organizzatore di fuochi d’artificio per le fiere di piazza. Per trovare una maggiore serenità Gianni decide di allontanarsi dalla sua famiglia e si mette a cercare lavoro. Nino lo aiuta, indirizzandolo a una cava gestita da suo zio. A poco a poco l’amicizia tra i due ragazzi si trasforma in passione, ma il contesto socio-culturale non è dei più favorevoli per l’amore omosessuale. [sinossi]

Ci sono storie che è necessario raccontare. È una necessità a prescindere, che talvolta può mettere in ombra le precipue specificità cinematografiche. Avvenuto in provincia di Catania agli inizi degli anni Ottanta, il delitto di Giarre è un atroce fatto di cronaca che nell’Italia di oggi è pressoché dimenticato. L’abbiamo dimenticato perché probabilmente ci siamo illusi di essere un paese civilmente evoluto – e non lo siamo: basti pensare quanto ancora è lunga la strada dei diritti delle persone omoaffettive e quanta fatica è costata la pallidissima legge sulle unioni civili emanata nel 2016. Eppure l’Italia è un Paese tanto bello… Ma proprio non ce la fa a diventare anche bello dentro.

Torna a ricordarcelo con le parole più chiare possibili Stranizza d’amuri, bell’esordio alla regia di Giuseppe (per tutti Beppe) Fiorello, star della fiction televisiva che nei modi più impensabili fa irruzione nella produzione cinematografica nazionale con un bel piglio da umanesimo di denuncia. Fiorello rievoca infatti la tragica vicenda della giovane coppia omosessuale Giorgio Giammona e Antonio Galatola, ricordati poi come Giorgio e Toni, che nella Giarre del 1980 furono uccisi a colpi di pistola secondo i tetri schemi di un omicidio a matrice chiaramente omofobica. Scartata l’iniziale ipotesi di un omicidio/suicidio scaturito dalla disperazione dei due ragazzi, il delitto rimase impunito, poiché l’unico serio indiziato (e all’orrore si aggiunge altro orrore) fu un nipote di Toni, appena tredicenne, che per la sua età non era perseguibile e che comunque ritrattò più volte la sua versione dei fatti. Peraltro, il presunto omicida preadolescente si direbbe adombrato in un personaggio piuttosto importante del film, il bambino Totò che segue ignaro le vicende e che Fiorello e i suoi sceneggiatori collocano in posizione di testimone inconsapevole – ma intanto, secondo un feroce modello educativo, gli si insegna presto a sparare con il fucile. Sprofondato nella più barbarica cultura machista italiana, il delitto di Giarre sollevò quantomeno lo sdegno degli ambienti omosessuali impegnati e diede impulso alla fondazione del primo circolo di Arcigay, che vide la luce a Palermo appena un mese dopo la morte dei due ragazzi.

Il film di Fiorello prende le mosse da una precedente rielaborazione narrativa della vicenda di Giarre, il romanzo Stranizza di Valerio la Martire, e nel titolo del suo film il neo-regista richiama anche una celebre canzone di Franco Battiato, a sua volta originario di Giarre e sorta di nume tutelare musicale per tutta l’operazione. La vicenda è posticipata di due anni rispetto al fatto di cronaca e colloca il lento crescere dell’amore fra i due ragazzi nei cruciali mesi estivi del Mundial di Spagna 1982, dal quale l’Italia uscì trionfante segnando uno dei momenti di più intenso affratellamento nazionale nella nostra storia recente. Il contrappunto fra la storia pubblico-privata di Giorgio e Toni (nel film ribattezzati Gianni e Nino) e il Mundial di Spagna è meno pretestuoso di quanto ci si aspetterebbe. La ricostruzione storica e di costume operata da Fiorello sembra infatti meno occasionale rispetto alle consolidate consuetudini dell’attuale cinema italiano. Si è ormai abituati a narrazioni cinematografiche sul passato italiano sovraccariche di blandi richiami alla cronaca nazionale e/o punteggiate di accurate selezioni musicali d’epoca che tuttavia raramente dialogano con il tessuto significante del film. È un gusto per il bric-à-brac d’antiquariato o modernariato che al cinema italiano piace tanto, un po’ per divertirsi con gli strambi abbigliamenti del tempo, un po’ per ridare lustro autoriale all’amatissima musica pop di casa nostra. In quest’azione di ricostruzione Fiorello sembra però muoversi con maggiore solidità e consapevolezza. Innanzitutto la Sicilia raccontata è soltanto parzialmente bozzetto. Certo, è da rilevare uno stonato registro grottesco nel disegno della combriccola maschile del bar, fitta di personaggi bizzarri (il tizio che arriva con la doppia piastra di mangiacassette sulla spalla) e protagonista di siparietti stucchevoli – ovviamente è palese l’intenzione di aggredire con il grottesco tutto un sistema di rocciosi valori machisti, ma per un film dedicato a una vicenda tanto tragica gli strumenti del bozzetto ridarello, sia pure presente in quantità minoritaria e marginale, non sembrano i più adatti. Così come è ormai un appuntamento fisso nel cinema italiano a tema LGBTQIA+ la danza del protagonista con la madre sulle note di un successo italiano anni Sessanta o Settanta (perché poi…).

In qualche modo, Stranizza d’amuri mostra dunque i suoi momenti più deboli quando tenta di uscire dal sentiero sicuro del racconto per aprire qualche parentesi fuori registro in cui Fiorello sembra voler personalizzare ad ogni costo il proprio film. Tuttavia, l’estate del Mundial 1982 e la musica d’epoca che più volte commenta in maniera intradiegetica il racconto sono stavolta ben connaturati a una precisa contestualizzazione culturale. L’Italia profonda gioisce per la Nazionale e ascolta i Pooh. La provincia remota, abbandonata a se stessa dalle istituzioni centrali e ancora ferma ad ataviche forme di lavoro (la cava), si adagia nella consolazione data da un granitico mondo di certezze, punteggiato di gradevoli consuetudini – le fiere di piazza, le processioni, i fuochi d’artificio, e pure il calcio e le belle melodie italiche. La Sicilia di Stranizza d’amuri non è aspra e impenetrabile come nei numerosi film italiani d’impegno civile, né una leccata o comica cartolina come in molte altre occasioni. È un paesaggio antropologico che Fiorello dipinge di figure vere e credibili, schiacciate da soffocanti schemi socio-culturali, colte in una sonnacchiosa quotidianità di paese. Nell’orizzonte di tale andamento dimesso è ricompresa pure la violenza e la sopraffazione. Nei suoi tempi lunghi e nei suoi ritmi distesi il film di Fiorello evoca anzi con discreta efficacia la pacatezza di un contesto in cui tutto sembra srotolarsi senza troppe scosse, basta che non s’infranga minimamente un sistema di rigidissime regole che nella loro quieta riconferma quotidiana assumono l’immediatezza del dato naturale. Il maschio va a caccia e educa i discendenti ad andarci. Il maschio domina, e la donna cucina, apparecchia e sparecchia. Il maschio è padre, e il suo compito è plasmare altri futuri padri. Il rifiuto dell’omosessualità è talmente radicale da negarle addirittura l’esistenza linguistica – la totale repulsione impedisce di pronunciare qualsiasi parola che possa identificare il mondo gay. La famiglia di Nino è anche lungamente amabile. È amabile la sua unità, la sua natura spontaneamente collettiva, che sulle prime spinge ad accogliere anche Gianni come un figlio. È amabile pure il lavoro del capofamiglia, che fa i fuochi d’artificio nelle fiere di piazza. Ciò nonostante è costantemente presente l’ombra della violenza, pronta a esplodere alla minima messa in discussione di quel sistema di valori.

Stranizza d’amuri riserva un lento e cauto passo analitico al tratteggio del contesto sociale e applica lo stesso trattamento anche all’emergere della passione fra i due ragazzi. Qua e là la messa in scena si fa pianamente convenzionale (l’amore nasce fra un bagno al mare e un bagno in un laghetto), ma con apprezzabile finezza Fiorello affronta la crescita di un amore adolescente che per almeno uno dei due protagonisti significa anche scoprire per la prima volta il proprio orientamento. Il contesto è talmente schiacciante che a Nino mancano pure le parole per definire se stesso. La passione emerge, ma non si è dotati nemmeno degli strumenti necessari per verbalizzarla e per darsi un nome. Altrettanto meritevole è lo schietto romanticismo a cui Fiorello aderisce, riscrivendo un sincero gusto per i sentimenti in chiave di realismo sociale. La storia di Gianni e Nino è romanticismo proletario, radicato in un preciso contesto umano. Se dunque è innegabile l’accuratezza psico-antropologica mostrata dal regista esordiente, è altrettanto evidente che il film vive di frequenti scompensi e cadute di tono – le svolte psicologiche della madre di Gianni, lo sguardo da horror di Fabrizia Sacchi, nei panni della madre di Nino, incorniciata dalla finestra quando raccoglie il fatale pettegolezzo, le già citate aperture grottesche, qualche concessione all’uggiosa notazione di colore (il mestolo messo in bocca per non lacrimare mentre si sbucciano le cipolle), qualche sparuto eccesso melodrammatico nella direzione degli attori probabilmente dovuto a una certa acerbità registica… A elevare Stranizza d’amuri intervengono però in modo decisivo la sua grande sincerità e generosità, l’urgenza del dire, l’intenzione convinta e determinata a puntare una luce negli anfratti più oscuri della storia culturale italiana. L’omicidio di Giorgio e Toni è rimasto senza colpevoli, ma in fin dei conti è chiamato a correità un globale modo di pensare che per decenni ha ritenuto naturale (e in parte tuttora ritiene) negare la possibilità di vivere a intere generazioni di uomini e donne. Per cui certe storie necessitano di essere raccontate, con ogni mezzo e con qualsiasi riuscita stilistica. Nel caso dell’esordio alla regia di Beppe Fiorello, poi, ci troviamo pure di fronte a un buon film. Tanto meglio. Sul finale si piange, spontaneamente e senza ricatti. Perché la storia di Gianni e Nino merita totalmente di essere pianta. E poi sui titoli di coda arriva la Stranizza d’amuri di Franco Battiato, per cui si piange doppiamente.

Info
Stranizza d’amuri, il trailer.

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