Barbie

Barbie

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Fumettoso, giocoso, musicale, variopinto, a tratti intelligente e perturbante ma non troppo, Barbie di Greta Gerwig cerca una via al blockbuster d’autore, ma è soprattutto un prodotto Warner Bros/Mattel.

Voglio (essere) una donnaaaa

Barbie Stereotipo è una delle più amate celebrità di Barbieland, la terra dove vivono le bambole inventate da Mattel: la “donna” non ha mai avuto problemi nella sua vita ordinaria e sempre identica a sé, fino a quando non inizia a vivere sentimenti di morte… [sinossi]

Ammettiamolo subito, c’è sempre stato qualcosa di poco chiaro nel nostro rapporto con le Barbie e i Ken della Mattel, la cui esasperata bellezza sembrava (e sembra) voler celare e sostituire l’assenza di attributi sessuali sotto gli altrettanto seducenti vestiti. Si è posta evidentemente il problema Greta Gerwig che dopo il coming of age indie Lady Bird e il suo più che soddisfacente adattamento di Piccole donne, fa ora il suo esordio nel blockbuster mainstream con Barbie, attesissimo e ultrapubblicizzato live action dedicato alla bambola ideata da Ruth Handler e commercializzata nel 1959. Commedia demenziale, screwball comedy sulla guerra dei sessi, musical, dramma esistenziale, Barbie è un gustoso miscuglio di generi (non manca il riferimento al western), denso di citazioni (tra gli altri, 2001: Odissea nello spazio, Matrix, Singin’ in the Rain, Grease, Orgoglio e pregiudizio), numeri danzanti in perfetto stile musical della Hollywood classica (strepitoso il balletto dei tanti Ken così come il brano cantato da Ryan Gosling), gag slaptick e battute sarcastiche rivolte a un pubblico più smaliziato. Insomma, il film della Gerwig è un viaggio sulle montagne russe fatto di alti e bassi, che cerca con fin troppa evidenza di fare colpo su ogni fascia di pubblico, e dunque, necessariamente, per ampi tratti della visione si fa strada la sensazione sia il frutto di una serie di compromessi, come, d’altronde, ogni blockbuster che si rispetti.

Data l’accorta e massiva promozione del film, è un vero peccato constatare fin da subito che il geniale incipit, con la citazione della kubrickiana alba dell’uomo di 2001: Odissea nello spazio, sia stato spoilerato dal teaser trailer diffuso diversi mesi prima dell’uscita del film. Di fatto si tratta della scena migliore di una pellicola che centellina poi le sue idee più brillanti tra le pieghe di un racconto abbastanza convenzionale, a tratti indeciso sulla direzione da intraprendere, nel complesso poco coinvolgente. Protagonista delle vicende non è una Barbie in particolare (per i nostalgici è prevista una rassegna che include, oltre al prototipo del ‘59, anche il modello “Fiori di pesco”, il “Cristal” e il “Night&Day” con relativo completo mutevole rosa shocking) bensì Barbie Stereotipo, non esistente in commercio, almeno al momento, ma un perfetto standard per l’immaginario comune, cui dona carne e smagliante sorriso un’impeccabile Margot Robbie. Al suo fianco troviamo un Ken biondo dalle fattezze di Ryan Gosling e uno stuolo di altre Barbie e altri Ken di varie fogge e differenti combinazioni tra colore della pelle, dei capelli e stile degli abiti. C’è anche una Barbie presidente afrodiscendente e una Premio Nobel per la letteratura. Non manca poi l’adolescente Skipper e fanno la loro comparsa dei gustosi modelli poi ritirati dal commercio come la Midge incinta, l’amico del cuore di Ken, Allan (Michael Cera), e poi Ken orecchino magico e Ken Sugardaddy, figli dell’estetica new romantic anni ‘80 e da tempo oggetti di culto per la comunità LGTBT.

Tutta ambientata nella caramellosa e pastellosa Barbieland, la prima porzione del film risulta  piuttosto ripetitiva e improntata a una comicità infantile fatta di gag ridondanti amplificate dal tormentone “Ciao Barbie! Ciao Barbie! Ciao Barbie!”, anch’esso già abbondantemente presente nel trailer del film ed espressione in fin dei conti di un’uguaglianza e di un multiculturalismo plasticosi, politicamente corretti, standardizzati dalla natura commerciale del prodotto Mattel, anzi del prodotto Warner Bros/Mattel. Il primo punto di svolta, utile a far partire il racconto, arriva abbastanza presto e si manifesta nel corso di un party scintillante, quando irrompono sulla pista da ballo i pensieri di morte di Barbie Stereotipo, seguiti da altre congetture filosofico-intimiste. Si scoprirà che tali congetture sono trasmesse dalla proprietaria della bambola, che si trova nel mondo “reale”. Si tratta, in tutta evidenza, di un elemento narrativo prelevato da Toy Story: anche lì il giocattolo protagonista veniva messo da parte per ragioni fisiologiche di crescita del bambino-padrone. Anche se poi si scoprirà che le cose non stanno esattamente così, è evidente da parte degli sceneggiatori (la Gerwig e il sodale Noah Baumbach) la volontà di utilizzare un elemento narrativo già perfettamente funzionale, non a caso, in un altro film sui giocattoli dal successo planetario. Nella stessa direzione, ben più legata alla contemporaneità, va il riferimento al multiverso, ormai un irrinunciabile grimaldello del blockbuster contemporaneo (dal cinecomic al premio Oscar Everything, Everywhere, All at Once). Per cui ecco che Barbie stereotipo, insieme a Ken, attraversano una serie di scenari alternativi per poi raggiungere il mondo reale e trovare così (forse) una soluzione ai problemi esistenziali della nostra, tormentata protagonista.

Ma sia narrativamente che da un punto di vista emotivo dei tormenti di Barbie stereotipo in fondo poco ci cale, maggiore empatia scateneranno poi infatti quelli di Ken, da un lato perché i suoi sono problemi di natura “ontologica” (Ken è un accessorio di Barbie, come viene detto nel film), dall’altro perché, per noi cinefili e voyeur, la questione dello sguardo, per cui Ken “esiste” solo se Barbie lo guarda, è assai più allettante, quasi irresistibile. Allo stesso modo, fa piacere che la regista abbia preso in considerazione di approfondire alcuni aspetti feticisti della bambola, che non sono soltanto relativi al dilemma sulle scarpe da indossare (gag che comunque risulta assai divertente), ma anche a quei laccetti che imbrigliano la Barbie e a quell’odore tipico della scatola che la contiene, odore che chiunque ne abbia mai scartata una dovrà per forza proustianamente ricordare. Se dunque Barbie appare a tratti divertente, d’altro canto va segnalata la presenza di numerosi spiegoni narrativi, tra i quali si annovera un discorsetto poco incisivo su come le donne dovrebbero essere secondo la società contemporanea e che servirebbe a risvegliare l’autodeterminazione delle Barbie, e poi un monologo finale verbosamente stordente, del tutto inefficace da un punto di vista emotivo (rappresenta il climax del film), dato che dopo pochi secondi allo spettatore viene da pensare ad altro.

A fine visione, a parte tutto il rosa, alcune gag riuscite e alcuni ganci di natura “intellettuale” in cui emerge con maggior nitore la presenta in sceneggiatura di Gerwig e Baumbach, viene voglia di vedere un’altra versione del film, forse quella che la regista voleva realmente fare, dove la sessualizzazione e feticizzazione della bambola trova maggiore spazio e compimento e dove la protagonista è una sorta di Pinocchio al femminile, il cui unico desiderio è essere una donna vera.  Se ci siamo tanto concentrati sulla struttura del racconto è perché in essa emerge in maniera lampante quello status di “prodotto” del film di Greta Gerwig, quell’attenzione fin troppo esibita per un equilibrio tra maschi e femmine, patriarcato e matriarcato, capitalismo e anticapitalismo e dunque in ultima istanza tra blockbuster d’autore e prodotto industriale. E il problema del film è proprio che vive di questi (e altri) dualismi, che non trovano mai alcuna sintesi. Tutto viene affermato e poi smentito e ogni problematicità si dissolve, sostituita dal piacere per la visione, sovvenzionato dall’ottima fotografia di Rodrigo Prieto e dalle spettacolari scenografie di Sara Greenwood. Di fronte a questi, anche la regia di Greta Gerwig diventa un mero accessorio. E dunque, allo spettatore di Barbie resta, se ne ha voglia, il compito di trarre le sue conclusioni, di farsi la sua opinione, o di restare comodamente fedele alla propria. 

Ripensando poi al dualismo, presente nel film tra “Oca professionista” e Premio Nobel, viene in mente che in fondo un film su Barbie c’era già, ed è La rivincita delle bionde (2001), commedia ultraclassica che gioca con gli stereotipi, li ribalta e poi li riconferma. Ma questo è proprio ciò che il cinema hollywoodiano fa da sempre, raccontarci una storia che come qualsiasi fiaba, amiamo sentire e risentire, ancora e ancora.

Info
Il trailer di Barbie.

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