Everything Everywhere All at Once

Everything Everywhere All at Once

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Rutilante, demenziale, immersivo e citazionista, Everything Everywhere All at Once dei The Daniels ha le carte in regola, e se le gioca tutte, per diventare il cult movie del nostro tempo ma, come spesso accade in film di tal fatta, il confine tra l’ipertrofico e l’estenuante può farsi assai labile.

Guardo il mondo da un oblò

Evelyn Wang gestisce una lavanderia a gettoni, ha una figlia adolescente che non capisce più, un padre rintronato e un matrimonio alla frutta. Un controllo fiscale diventa inaspettatamente la porta attraverso cui Evelyn viene trascinata in una rutilante avventura nel multiverso. Dovrà attingere a tutto il suo coraggio per sconfiggere un nemico all’apparenza inarrestabile e riportare l’armonia nella sua famiglia. [sinossi]

Un’alta dose di folle inventiva, un pizzico di humour demenziale, citazionismo alternativamente pop e colto, un budget limitato quanto basta per garantire la libertà creativa necessaria al tutto, sono questi i principali ingredienti di Everything Everywhere All at Once, un cult movie in qualche modo persino programmatico, che punta dritto a un pubblico “di nicchia” ben sapendo quanto questo sia, e la storia del cinema lo ha più volte dimostrato, pronto a rivelarsi nutrito e influente. E l’operazione, in tal senso, pare proprio funzionare, dato il successo già raccolto in patria dal film e l’attesa che accompagna ora il suo arrivo nelle nostre sale.

Diretto dalla coppia di registi nota come The Daniels (al secolo Daniel Kwan e Daniel Scheinert) e prodotto dai fratelli Anthony e Joe Russo (autori di ben quattro film del Marvel Cinematic Universe, incluso il dittico Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame) Everything Everywhere All at Once è un rutilante e delirante pastiche multigenere denso di personaggi e situazioni non sense dove però, come spesso accade in film di tal fatta, il confine tra l’ipertrofico e l’estenuante può farsi assai labile o, meglio, per usare una metafora quantomai appropriata al caso, questi due aspetti vivono in un costante rapporto osmotico.

Declinazione pop e indie del multiverso – che non è dunque esclusivo appannaggio dell’universo Marvel – Everything Everywhere All at Once catapulta infatti lo spettatore in innumerevoli universi paralleli, pronti a rovesciarsi uno nell’altro, con dinamiche ed esiti sempre più imprevedibili. A visitarli tutti è Evelyn Wang (Michelle Yeoh), proprietaria sino-americana di una lavanderia a gettoni che gestisce con il consorte Waymond (Ke Huy Quan, l’ex bambino prodigio di Indiana Jones e il tempio maledetto e I Goonies). Con i festeggiamenti per il capodanno cinese in arrivo, la donna deve gestire un padre brontolone e svampito dall’età, una figlia lesbica con fidanzata al seguito, un divorzio imminente di cui è ancora ignara e soprattutto la temibile ispettrice del fisco Deirdre (una strepitosa Jamie Lee Curtis), che minaccia di farle chiudere l’attività. È proprio di fronte alla scrivania su cui giacciono affastellate le ricevute di pagamento dell’azienda familiare, che il multiverso si squaderna, rivelando a Evelyn l’esistenza di altre sé dalle differenti abilità, inclusa naturalmente quella del kung-fu (arte in cui Michelle Yeoh ha già dato prova in numerosi action hongkonghesi nonché in La tigre e il dragone e nel recente e marvelliano Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli). Quanto alla piattaforma di salto tra un universo e l’altro, è presto detta: occorre un’azione statisticamente improbabile e notevolmente insensata. Non può mancare poi un villain, ecco dunque l’impenetrabile e multiforme Jobu Tupaki, ben intenzionata a distruggere il multiverso.

La regia ben orchestrata dei The Daniels, prima di manifestarsi in scontri corpo a corpo balisticamente ben calibrati, fin dal principio gioca visivamente con il caleidoscopio di invenzioni che poi andrà a somministrare, a partire ad esempio dall’utilizzo di elementi scenici quali uno specchio circolare (che non a caso accompagna il nostro accesso al film), cui fa eco poi l’oblò lavatrice, pronto a rivelarci, tramite il ripetuto capovolgimento del bucato, che in fondo siamo tutti panni sporchi, pronti ad essere ribaltati per l’intera durata dell’operazione-film. Sullo sfondo del soggiorno in cui Evelyn si barcamena tra ricevute e scontrini, troviamo poi una lampada luminosa dove ruota sempre la stessa immagine, elemento metariflessivo, forse, del film o del cinema tutto, e a scandire il ritmo troviamo anche le pale rotanti di un ventilatore, mentre sullo sfondo svetta un florilegio di filmati delle videocamere di sorveglianza, a cui lo sguardo della protagonista è precluso, ma non di certo il nostro: sono queste infondo il preludio al continuo attraversamento di universi concepiti come scatole cinesi.

Azione, fantascienza, melodramma familiare e poi anche musical di Bollywood, commedia demenziale, wuxiapian, fantascienza, animazione 2D, dramma sociale, melodramma amoroso e familiare, con il grimaldello del multiverso Everything Everywhere All at Once attraversa ogni genere, per poi andare più nello specifico con le sue citazioni. Tra quelle più esplicite troviamo 2001: Odissea nello spazio, Ratatouille, In the Mood for Love, ma si respirano echi di Matrix (il mondo parallelo, l’eletta), Il seme della follia (le infinite possibilità di sviluppo della narrazione, il capovolgimento eterno tra realtà e finzione) che vengono alla luce nei momenti che alludono in maniera più esplicita a un certo substrato filosofico del film, che include riferimenti a un algoritmo stocastico, alla fisica quantistica, nonché a questioni come la verità e il libero arbitrio, che fanno capolino nei dialoghi – talvolta un po’ troppo verbosi – dei personaggi.

Ma soprattutto alla base di Everything Everywhere All at Once c’è qualcosa che pensavamo ormai di aver perduto per sempre: quel gusto eccessivo applicato all’azione quanto al sentimento (il melò familiare esplode nell’ultima porzione di film), che caratterizzava il cinema hongkonghese dei suoi anni migliori (tra gli ’80 e i ’90) e che oggi, con l’apertura al mercato cinese e alla relativa audience, pare in buona parte perduto. D’altronde è sempre stato così, il cinema di Hong Kong e quello hollywoodiano si sono felicemente, creativamente cannibalizzati più volte nel corso della storia (pensiamo, tra gli altri, ai casi di Kill Bill e The Departed), ed è giusto che qualcuno, sul suolo statunitense, faccia nuovamente sfoggio ora di questo retaggio.

E infine, vale certo la pena certificare come in Everything Everywhere All at Once siano presenti le caratteristiche del cinema postmoderno (anche di questo, dopo il boom degli anni ’90 e ’00 si erano perse un po’ le tracce), un cinema di superficie, attraente, variopinta e opaca, metalinguistico, denso di riferimenti ai film del passato (è un cinema decisamente “post”), di fuochi d’artificio fini a se stessi, dove alto e basso hanno pari dignità, dove l’immersione, l’attraversamento e la sovversione dei generi la fanno da padroni. E dunque non resta che prendere coscienza del fatto che oggi il multiverso ha rimpiazzato il postmoderno o, semplicemente, quest’ultimo è stato “rinominato”, al pari di un vecchio file rimaneggiato, riaggiornato e pronto a nuovi utilizzi.

Per i più ottimisti poi, Everything Everywhere All at Once è (anche) una metafora dell’arte che più ci sta a cuore, perché è il cinema quella porta d’accesso verso altri mondi dove possiamo illuderci di acquisire capacità che non abbiamo, essere una versione migliore, o peggiore di noi stessi. L’unico luogo-non luogo che è tutto, dappertutto e tutto insieme.

Info:
Il trailer di Everything Everywhere All at Once.
La scheda di Everything Everywhere All at Once sul sito di I Wonder.

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