Kill Bill Volume 2

Kill Bill Volume 2

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Tornare a distanza di neanche un anno sul luogo del delitto – in questo caso la chiesetta spersa nel deserto in cui la Sposa va all’altare ritrovandosi un proiettile in testa – permette a Quentin Tarantino di elaborare in modo ancora più sfaccettato il discorso sull’Immagine, sul cinema come arte cannibale che si nutre di sé e sulla vendetta. Se nel primo capitolo dominava l’omaggio al cinema del “far east”, Kill Bill Volume 2 prende di petto lo spaghetti-western, e lo rielabora.

Meritarsi la vendetta

Dopo aver incontrato ed eliminato sia Vernita Green che O-Ren Ishii, la Sposa si mette in viaggio per regolare i conti con Elle Driver e Budd, ultimi ostacoli prima di potersi concedere il gusto agrodolce della vendetta: uccidere Bill. [sinossi]
I’ve killed a hell of a lot of people
to get to this point.
But I have only one more.
The last one,
the one I’m driving to right now.
The only one left.
And when I arrive at my destination,
I am gonna kill Bill.
Ho ucciso tante persone
per arrivare fin qui.
Ma ne devo uccidere ancora una.
L’ultima.
Quella da cui sto andando ora:
la sola rimasta in vita.
E quando sarò arrivata a destinazione,
io ucciderò Bill.
La Sposa, Kill Bill Volume 2.

In una delle battute conclusive di Kill Bill Volume 1, che quasi preconizza a mo’ di “prossimamente” ciò che avverrà in Kill Bill Volume 2, Budd (nome in codice Crotalo Cereste) guarda il cielo americano sopra di lui e afferma “Quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire”. Un passaggio brevissimo – è per di più la prima volta che il fratello di Bill, dal nome proprio altrettanto sintetico, ha diritto alla parola – che sembra aprire il fianco a disillusioni post-western, con l’orizzonte che assume contorni à la Peckinpah, in un’atmosfera crepuscolare da finis terrae, conclusione della leggenda che, rubando le parole al Bufalo Bill di Francesco De Gregori, lega “diminuzione dei cavalli” e “aumento dell’ottimismo”. Eppure, nell’inevitabile menzogna dell’immagine – tautologicamente vera, e dunque costretta a contenere al proprio interno il germe della falsità –, Tarantino chiosa prima che Budd concluda davvero la sua battuta. Questo ovviamente lo spettatore lo può scoprire solo durante la visione di Kill Bill Volume 2, quando viene riproposta la battuta di Budd ma questa volta la si trova inserita in un contesto ben preciso: suo fratello Bill, con cui ha avuto uno screzio tempo addietro e non c’è più un vero dialogo, lo è andato ad avvisare del fatto che la rediviva Sposa – il nome proprio verrà pronunciato solo più in là nel film, e dunque verrà qui scritto solo in un passaggio successivo – è sulle sue piste con un unico intento, quello di togliergli la vita. L’ha già fatto con Vernita Green, e anche con O-Ren Ishii. Ora tocca a lui. Solo dopo aver ascoltato questo, Budd declama “Quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire”, aggiungendo però una postilla: “Ma la cosa vale anche per lei… E quindi staremo a vedere. Non è così?”. Si ha dunque uno svelamento, il ribaltamento del vero apparente: quella di Budd non è una remissiva accettazione di un destino ineluttabile, ma la constatazione di un agone in atto, un combattimento che essendo per la vita è di per sé infinito quanto il tempo in cui si resta in vita. Quel “non è così?” su cui termina la scena è poi senza dubbio rivolto, in ossequio alla diegetica, al fratello, ma sembra quasi ammiccare allo stesso spettatore, che è stato introdotto in questa seconda parte da due frammenti che appaiono quasi aprioristici, fuori dal reale tempo della narrazione. Il primo, che graficamente sembra ipotizzare uno sposalizio tra Kill Bill e Sin City (l’adattamento del fumetto di Frank Miller arriverà in sala nel 2005, un anno più tardi, per la regia dello stesso Miller e di Robert Rodriguez, con la “partecipazione straordinaria” dietro la macchina da presa proprio di Tarantino in una parte dell’episodio Un’abbuffata di morte), vede Uma Thurman alla guida di una decappottabile, con alle spalle un paesaggio che passa su un trasparente – escamotage del cinema classico che Tarantino utilizza spesso, ad esempio nella sequenza con Bruce Willis in taxi in Pulp Fiction – superare la parete ideale dello schermo per parlare direttamente con lo spettatore: “Sembravo morta, vero?! Ma non lo ero… Non perché non ci avessero provato, intendiamoci. A dire il vero, l’ultimo proiettile di Bill mi mandò in coma, coma in cui sono rimasta per quattro anni… Al mio risveglio ho agito spinta da quella che la pubblicità del film definisce “una ruggente furia vendicativa”. Ho ruggito… E mi sono infuriata… E mi sono presa tante soddisfazioni! Ho ucciso tante persone per arrivare fin qui, ma ne devo uccidere ancora una… L’ultima. Quella da cui sto andando ora. La sola rimasta in vita. E quando sarò arrivata a destinazione, io ucciderò Bill!”. Il secondo frammento, che è anche il primo vero sottocapitolo del Volume 2, torna invece alla chiesetta dove si deve svolgere il matrimonio, e dove la Sposa si ritroverà imbrattata di sangue con un proiettile in testa sparatole proprio da Bill, il padre della bimba che porta in grembo. Questi due passaggi (c’è anche, prima del monologo in macchina della Sposa, un ritorno all’immagine del colpo di pistola inferto da Bill) sono fuori, del tutto fuori, dal tempo della narrazione. Non perché siano passati, visto che di flashback sarà ricolmo anche Kill Bill Volume 2, ma per il semplice fatto che servono in modo esclusivo a ricordare allo spettatore qualcosa che già sapeva.

Uma Thurman che guarda in camera e rammenta ciò che le è accaduto è una trovata che sembra scaturir fuori dall’epoca dei feuilleton, è da un punto di vista filologico non fa una grinza: Kill Bill è in tutto e per tutto un romanzo popolare di appendice, basato su un intreccio a suo modo complesso (e reso assai più complicato, scientemente, dal regista e sceneggiatore proprio attraverso la continua parcellizzazione del tempo della narrazione, con quei salti avanti e indietro che costringono lo spettatore a ricollocare ogni volta lo sguardo) e dominato da personaggi che non possiedono sfaccettature e non propongono alcuna ambiguità: i buoni sono buoni dall’inizio alla fine, i cattivi fanno la loro parte senza pentimenti di sorta fino alle estreme conseguenze. Geniale scrittore, oltre che raffinato cineasta, Tarantino ha ben chiara l’identità della propria creatura, e la necessità di parlare al popolo/pubblico senza forzature intellettuali o fronzoli particolari: sarà così anche in Django Unchained, per citare un titolo che si basa sul concetto di narrazione d’appendice, ed è per questo che serve che la Sposa ricordi al pubblico sia quel che le è capitato (non è detto che lo spettatore si sia preso la briga di vedere anche il Volume 1) sia quel che dovrà necessariamente capitare, vale a dire lo scontro vis à vis con Bill. Il secondo frammento, invece, riprende già la struttura narrativa del film, e infatti viene presentato come il “Capitolo Sesto”, eppure la voce narrante della Sposa lo introduce così: “Dunque, quello che accadde alla cappella nuziale Due Pini, che diede inizio a questa storia cruenta, è ormai leggenda”. È la stessa protagonista della storia, dunque, a collocare “fuori dalla storia”, in quanto leggenda, quel che accadde lì, il motore scatenante dell’intero sviluppo narrativo del film. Dopotutto, ed ecco che torna preponderante il discorso sul falso dichiarato come vero perché prodotto in quanto immagine, non si trattava neanche del matrimonio, ma solo delle prove del matrimonio. L’America di Kill Bill Volume 2 (il primo capitolo si sviluppava quasi interamente in Asia, tra Okinawa e Tokyo) è ancora quella del Vecchio West, dove tra realtà e leggenda si sceglie sempre la seconda. Perché più affascinante, ma soprattutto più narrativa. È dunque così importante che gli 88 folli con cui si batté la Sposa alla “Casa delle Foglie Blu” non fossero effettivamente ottantotto di numero? Fin dall’inquadratura iniziale della cappella nuziale Due Pini è evidente che l’orizzonte cinematografico di Tarantino sia mutato rispetto al primo capitolo del dittico. Lì a dominare il proscenio era il riferimento all’arte marziale, il gioco tra wuxia – genere cantonese per eccellenza – e yakuza eiga – genere giapponese per eccellenza –, la tensione morale della filosofia orientale. “Perdonami se ti ho deriso”, dice O-Ren Ishii quando capisce che la Sposa possiede una tecnica nell’uso della katana che lei aveva sottostimato. “Perdonata”, risponde la Sposa prima dell’affondo che vedrà volar via, fino a cadere nella soffice neve, la parte superiore del cranio dell’avversaria, appena sopra il cervello. Un rapporto conflittuale che filosoficamente vede le due contendenti rispettarsi. Tutto questo non ha peso, né senso, negli Stati Uniti d’America, in quella wilderness dell’anima che nessuno ha mai saputo domare – e quel che sta accadendo in questi giorni, con i sostenitori di Donald Trump che fanno irruzione nel Congresso è lì a testimoniarlo –; il combattimento con Budd, dapprima, e Elle Driver non ha alcun senso della lealtà. Budd non si premura neanche di confrontarsi con la Sposa, l’accoglie sparandole in pieno petto mentre lei vorrebbe scontrarsi a colpi di spada. Elle Driver è brutale, e per questo e per la sua crudeltà al di fuori di ogni logica (fa mordere Budd da un serpente velenoso) merita non la morte, perfino troppo definitiva e dunque pacificante, ma la cecità, la perdita dello sguardo che è nel mondo moderno la perdita del senso di sé, della propria relazione con l’esterno, dell’appartenenza a una realtà oggettiva.

Kill Bill Volume 1 era un film di pura azione, così raffinato nella raffigurazione grafica del gesto che poteva permettersi per un lungo tratto di fare persino a meno della parola pronunciata. Kill Bill Volume 2 si riappropria del dialogo, lo rende maggiormente centrale, ma questo perché in realtà il film si sviluppa prima, e dopo, l’atto. È il racconto semmai di un lento apprendistato, quello che porta Beatrix Kiddo (questo il nome della Sposa, infine reso noto al pubblico) a uscire dalla propria dimensione americana per imparare l’arte della lotta, nel suo significato più profondo ed estremo, in Cina sotto i duri colpi del maestro Pai Mei – a interpretarlo Gordon Liu, che nel primo capitolo impersonava Johnny Mo, il leader degli 88 folli; con lui anche Michael Parks torna in un ruolo differente rispetto al primo film, qui è l’anziano pappone Esteban Vihaio, l’anno prima dava il volto al Texas Ranger Earl McGraw: una narrazione duplice, sembra sottolineare Tarantino, permette doppi impossibili anche nella recitazione. Mentre gli altri membri della squadra assassina “Vipere Mortali”, compreso il boss Bill, restano fermi alle proprie competenze, Beatrix affina di volta in volta le sue, impara nuove tecniche, si confronta con filosofie di vita diverse. Lo studio le permette di risolvere ogni singola situazione, perfino di uscire dalla bara in cui è stata sepolta viva colpendo con la nuda mano il legno (in un mélange ideale tra La notte dei morti viventi, Carrie – Lo sguardo di Satana, e L’armata delle tenebre) per poi profilarsi all’orizzonte come l’eroina di un western di Sergio Leone, o di Sollima, o di Corbucci. La spocchia di dominio statunitense può arrivare a farsi beffe perfino dei migliori maestri, e così Pai Mei verrà avvelenato con la testa di pesce di cui è ghiotto da Elle Driver, ma chi ha avuto l’accortezza di raccogliere l’insegnamento è quasi imbattibile in una cultura ottusa e chiusa e in sé come quella statunitense. In un certo senso Beatrix Kiddo è anche Quentin Tarantino, che nella Torre d’Avorio di Hollywood ha saputo imparare dai buoni maestri: ha colto dalla blaxploitation come dal western italiano, dal cinema classico come dal wuxia hongkonghese e dal cinema nipponico, dal war-movie come dalla commedia sofisticata. Ha compreso, più e meglio di altri, che l’unico apprendistato possibile è quello multiforme, in grado di comprendere il senso della narrativa popolare per renderla propria, immergendola in una poetica espressiva del tutto peculiare. Per questo, anche per questo, nell’incontro finale e risolutivo (in attesa di un terzo volume più volte vagheggiato da Tarantino ma che per ora resta solo nel libro dei desideri, chiuso a doppia mandata in un cassetto) tra Beatrix e Bill, uno dei punti del discorso non può che essere Superman, il supereroe che non rappresenta la seconda identità di un uomo qualunque, ma ha dovuto ricorrere a un alter ego per nascondere la propria superiorità: “Dunque, l’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman! Quando Superman si sveglia al mattino è Superman. Il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti. Quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume. È il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in sé stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana, più o meno come Beatrix Kiddo è la moglie di Tommy Plympton”. C’è in questo passaggio, che anticipa di poco la conclusione del film, il senso stesso della cultura americana contemporanea, la riflessione più alta – e dunque possibile da racchiudere in un “semplice” dialogo – sul cinema statunitense, sull’ego e il super-ego, sulla volontà o necessità alla conquista, quella wilderness infinita e interminabile che si schiude davanti agli occhi del desiderio. Servono gli insegnamenti di Pai Mei per ergersi ancora un passo più in là. Ma Pai Mei è morto, e anche Hollywood si sente troppo bene.

Info
Il trailer originale di Kill Bill Volume 2.

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