Kill Bill Volume 1

Kill Bill Volume 1

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Kill Bill Volume 1 è l’omoteleuto imperativo con cui Quentin Tarantino entra nel Terzo Millennio, per ricordare agli spettatori che nell’impero dell’immagine sempre più ristretta il cinema può allargare lo sguardo, sconvolgerlo, e solo la non aderenza al genere ha la forza di agire in tal senso. Nel primo dei due capitoli che narrano le gesta vendicative de “la Sposa” il wuxia si lega allo yakuza eiga, l’animazione fa capolino fra lacerti di Chang Cheh, Bruce Lee, King Hu, ma anche di Alfred Hitchcock, Sergio Leone, e François Truffaut. Ma quello di Tarantino non è mai citazionismo fine a se stesso, ma immagine metabolizzata e ridefinita, cinema che fa della sua Storia l’elemento scatenante della narrazione, e del suo senso.

Le lunghe katane della vendetta

All’interno di una chiesa con il pavimento in legno un uomo di nome Bill spara in testa a una donna in abito da sposa già agonizzante in terra, dopo che lei lo ha informato che quello che porta in grembo è suo figlio. Quattro anni più tardi “la Sposa” si ridesta dal coma, fugge dall’ospedale e pianifica la sua vendetta. Il suo nome in codice è Black Mamba, e il suo unico obiettivo è uccidere tutti i suoi ex colleghi della squadra assassina “Vipere Mortali”, capitanata da Bill… [sinossi]
It’s mercy,
compassion and forgiveness
I lack. Not rationality.
Sono la pietà,
la compassione e il perdono
che mi mancano, non la razionalità.
La Sposa/Black Mamba, Kill Bill Volume 1

Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος. In principio era il Verbo, almeno stando al prologo del Vangelo di Giovanni, che poi prosegue con la formula καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος, “il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”. Un incipit folgorante per la capacità di assumere su di sé il Senso, l’Epos, e la sintesi di un processo teologico e filosofico. Un incipit che ha illuminato la via di molti autori intenzionati a confrontarsi con l’Assoluto, quale esso fosse. Si pensi ad esempio all’ingresso nel mondo de Il Silmarillion che J.R.R. Tolkien concede ai suoi lettori: «There was Eru, the One, who in Arda is called Ilúvatar; and he made first the Ainur, the Holy Ones, that were the offspring of his thought, and they were with him before aught else was made. And he spoke to them, propounding to them themes of music; and they sang before him, and he was glad.», che nella traduzione di Francesco Saba Sardi del 1978 diventa «Nel principio Eru, l’Uno, che nella lingua elfica è detto Ilúvatar, creò gli Ainur dalla propria mente; e gli Ainur intonarono una Grande Musica al suo cospetto»; Tolkien lega qui il Vangelo di Giovanni al libro di Samuele, nel quale si narra che David, suonando l’arpa, fosse in grado di placare lo spirito malvagio sceso su Saul, un passaggio che ispirò anche Leonard Cohen nell’apertura della sua celeberrima Hallelujah (“I’ve heard there was a secret chord / That David played and it pleased the Lord / But you don’t really care for music, do ya?”). Il Verbo. La Musica. La parola che diventa ragionamento e il suono che diventa condivisione del pensiero e dell’emozione. La radice biblica su cui si poggia parte consistente dell’evoluzione del pensiero europeo e “mediterraneo” (anche nella tensione della sua confutazione, ovviamente) avvalora il concetto di fede solo attraverso atti di relazione tra gli esseri umani, dunque la parola e il suono. La letteratura e la musica, a voler semplificare. Dopotutto Tristan Tzara affermava che “il pensiero si fa nella bocca”, dichiarando la primogenitura della parola sul ragionamento stesso. Non è un dada, Quentin Tarantino, né un salmodiante e neppure un evangelista. È un cineasta, e il suo rapporto di fede con l’immagine non deve essere scambiato per sacrale, e dunque intoccabile. Non è però nemmeno un eresiarca, per quanto possa essere considerato un rivoluzionario, nel senso più puro del termine, che sta a significare tanto il rivolgimento quanto il ritorno (“revolvĕre”, da cui anche germina il lemma revolver, o rivoltella, oggetto tra i più utilizzati nel cinema del regista statunitense). E ritorna sempre al cinema, Tarantino. Perché può essere che in principio fosse il Verbo, o la Musica, ma chi può asserire con certezza che in principio non fosse invece l’Immagine?

Contrariamente a quanto di solito i registi tengano a precisare, l’immagine di Tarantino ha tanti padri e tante madri, e non ha alcun timore ad affermarlo con forza, a ribadirlo, a farne la propria base concettuale. Era già così nei primi tre film, Le iene, Pulp Fiction e Jackie Brown, ma in pochi se ne accorsero sia per un’evidente mancanza di conoscenza di determinate aree della Settima Arte (in quanti nel 1992 ricordavano davvero Fernando Di Leo? Chi si ricordava, nel mondo critico, di Pam Grier e della Blaxploitation nel 1997?), sia perché in ogni caso le tre regie si muovevano in un solco non troppo dissimile, quello del noir anni Settanta, espanso nel ricorso tanto alla parola quanto alla violenza. Sarebbe semmai stato più utile sistematizzare all’interno della poetica tarantiniana anche i soggetti e le sceneggiature portate poi a termine da altri: a ripassare a memoria Una vita al massimo, Assassini nati – Natural Born Killers, e in particolar modo Dal tramonto all’alba (diretto dal sodale Robert Rodriguez, amico fraterno che sarà in più di un’occasione suo compagno di ventura) ci si rende conto che il campo d’azione di Tarantino è molto più vasto, non si ferma al recinto del noir ma vaga in direzioni tra loro solo apparentemente collimanti. La grande intuizione di Tarantino, che è sia istintiva che strettamente teorica, sta nel spingere le rette parallele a confluire le une nelle altre, laddove le si è sempre tenute distinte. L’azione post-moderna di Tarantino non sta solo nella rilettura dei generi e nella loro naturale confusione, ma anche nella continua tensione a ridefinire il tempo, la sua sostanza in scena e al di fuori della scena, il suo essere sempre il centro del discorso, anche al di là del soggetto principale. Quel soggetto in Kill Bill Volume 1 è Uma Thurman, vale a dire la Sposa, Black Mamba o, come si scoprirà nel secondo volume… Ma è meglio progredire seguendo la traiettoria impazzita di Tarantino, che opera una geografia del tempo che si trasforma da subito in geografia del senso del cinema, della sua infinita spazialità. Si torni dunque al biblico “in principio”. Cosa si trova al principio di Kill Bill Volume 1 (a parte l’omoteleuto imperativo racchiuso nel titolo, e che tornerà in forma di dialogo quando Buck affermerà di essere lì per “Fuck”)? Il logo della Shaw Brothers, la storica casa di produzione hongkonghese fondata dai fratelli Shaw (Run Run e Run Me) nel 1930 a cui devono parte consistente della loro carriera autori centrali del cinema di arti marziali quali King Hu, Chang Cheh, Lau Kar Leung, e Fan Ho: il tema musicale d’accompagno del logo è così dominante che sovrasta anche la comparsa del marchio Miramax, la produttrice del film. A questo imprinting fa seguito un altro logo arrivato da un tempo lontano, la scritta Our Feature Presentation che a partire dagli anni Sessanta e per tutto il decennio successivo accompagnava nel film che stavano per vedere gli spettatori statunitensi, in particolare in testa a b-movie o a opere di genere (si pensi ai grindhouse magnificati proprio dalla coppia Tarantino/Rodriguez). A queste due aperture grafiche ne fa seguito una terza, epigrafe bianca su schermo nero – dopo la policromia che l’ha preceduta – che recita «Revenge is a dish best served cold» (“La vendetta è un piatto che va servito freddo”), attribuendone l’origine a “Old Klingon Proverb”. In principio, dunque, era il proverbio. Ma in principio, prima ancora del proverbio, era il Cinema. E il cinema, grazie al potere illusorio dell’immagine/spettro, non può far altro che mentire. Ecco dunque che la falsità viene palesata fin dalla citazione dotta: perché se è vero che in Star Trek II – L’ira di Khan Ricardo Montalbán cita il motto addirittura in lingua klingon («bortaS bIr jablu’DI’reH QaQqu’ nay») è altrettanto vero che questo modo di dire, diffuso dall’Italia al Nord Africa arabo fino alla Francia – c’è chi, senza uno straccio di prova, lo ricollega a Le relazioni pericolose di Laclos – è presente “cinematograficamente” sia ne Il padrino che, in modo assai più evidente e dichiarato, nello spaghetti-western La vendetta è un piatto che si serve freddo di Pasquale Squitieri, che da cultore del genere Tarantino ha con ogni probabilità passato in rassegna. Prima ancora di aver prodotto una sola singola immagine originale Kill Bill Volume 1 urla ai quattro venti la sua discendenza, e fornisce nome e cognome dei propri genitori: i wuxia, l’exploitation da “double feature”, lo spettacolo hollywoodiano e lo spaghetti-western italiano.

Chiarita la questione ereditaria, Tarantino può concentrarsi sul suo personaggio, quello attorno al quale ruoterà l’intera vicenda – anche quando esso, il protagonista, non è in scena. Uma Thurman è inquadrata in primo piano, con la testa poggiata sul pavimento, terrorizzata e agonizzante, il volto ricoperto di sangue così come il velo che ne connota il ruolo sociale: è una “Sposa”. Questo depistaggio (si scoprirà nel secondo Volume come la scelta di sposarsi fosse un tentativo disperato e destinato al fallimento di uscire dal giro) permette però a Tarantino di rendere icona la sua protagonista prima ancora che qualcuno si chieda realmente chi sia e perché si trovi lì, in una chiesetta di legno a sposarsi con un numero di testimoni davvero esiguo. Trovandosi a tu per tu con una situazione tanto estrema, al punto da concludere la sequenza su una pallottola sparata a distanza ravvicinata nel suo cervello, lo spettatore non ha alcun interesse a scoprire l’identità di Thurman, perché gli è sufficiente quella connotazione: lei è la Sposa. La sposa in nero di François Truffaut ha da subito un nome, Julie, pronunciato dalla madre nel prologo, quando evita che la ragazza si lanci dalla finestra suicidandosi. Invece … (il nome lo si svelerà solo nel Volume 2, come scritto dianzi, e sembra opportuno non rivelarlo in questa sede) non ha nome, non ha identità, non esiste – tanto che neppure nella sala d’ospedale in cui vegeta in coma per quattro lunghi anni è possibile scoprire le generalità –, se non nella sua funzione sociale, quella di essere la Sposa. Un escamotage cui Tarantino ricorre con una certa frequenza, quello di attribuire un soprannome, vale a dire un nome collettivo, pre-identitario, ad alcuni dei suoi protagonisti, siano essi gli eroi o gli antagonisti della vicenda: c’è “l’Orso Ebreo” in Bastardi senza gloria, per esempio, ma già ne Le iene tutti i nomi dei componenti della banda assoldati per la rapina hanno solo nomi fittizi, legati in quel caso ai colori. Evitare nome proprio e patronimico permette di idealizzare il personaggio, renderlo qualcosa al di sopra degli eventi, perfino della stessa mortalità. È in una certa qual misura immortale la Sposa, che pure nella squadra assassina “Vipere Mortali” ha visto attribuirle da Bill il nome dell’ofide più letale di tutti, il mamba nero.

Non hanno quasi nome, in effetti, neanche le antagoniste e gli antagonisti della Sposa: o meglio, il loro nome (O-Ren Ishii, Vernita Green, Elle Driver, Budd), è sempre seguito nella presentazione dal nome de plume, lo pseudonimo utilizzato all’interno della ghenga. Ecco dunque Mocassino acquatico, Testa di rame, Serpente montano della California, Crotalo ceraste, nomi in codice che assurgono al ruolo di indici di un’indole, di un comportamento combattivo, trascendendo quasi fino al ruolo di δαίμων, raffigurazioni divine del materico, dell’umano, del mortale. Seguendo una linea retta, per poi confonderla nell’utilizzo dello spazio-tempo segmentando il film in reiterati flashforward e flashback, in una consuetudine mai venuta meno all’interno del proprio approccio alla regia, Tarantino edifica la struttura portante di Kill Bill Volume 1 ragionando sull’azione che fa le veci della parola: l’immagine si può sostituire al verbo, e assumerne tutti gli oneri nella raffigurazione del senso. Non mancano nelle quasi due ore in cui si dipana il film, dall’incipit in bianco e nero con la Sposa che viene trafitta dalla pallottola dell’amato/odiato Bill, fino alla conclusione con la protagonista che restituisce il corpo monco ma vivo di Sofie Fatale alle braccia – entrambe intatte – di Bill, i celeberrimi scambi dialettici, le lunghe dissertazioni che hanno creato da subito un’empatia fortissima tra Tarantino e i suoi spettatori, ma la forza primigenia di Kill Bill Volume 1 è puramente cinetica, al punto da potersi permettere un’intera sezione del film quasi interamente muta, quella che va dall’arrivo della Sposa a Tokyo fino al combattimento nel giardino innevato con O-Ren Ishii: quasi quaranta minuti in cui il suono si fa senso, ma è l’occhio a dominare e a rivendicare il proprio diritto al dominio nel campo del Cinema. Come aveva già fatto in precedenza – sempre anticipando l’ingresso in scena di O-Ren Ishii, la nippo-cinese-americana arrivata al vertice della Yakuza infliggendo pene terminali a coloro che non condividono la sua gestione della malavita (si perde la testa in un batter di ciglia) – ricorrendo all’animazione, in un omaggio tanto a una delle arti in cui primeggia il Giappone (gli anime) quanto al genere che irromperà nel volume successivo, vale a dire il western all’italiana, visto che la colonna sonora della sequenza unisce le musiche di Luis Bacalov per Il grande duello e Armando Trovaioli per I lunghi giorni della vendetta, Tarantino sfrutta le potenzialità grafiche della lotta per inserire i suoi personaggi in un contesto storico più ampio, che va venerato ma proprio per questo deturpato, riscritto, ridefinito e soprattutto miscelato con furia, senza il belletto dell’estetica fine a se stessa. In questo segmento del film, che occupa più di un terzo dell’intera narrazione del primo volume, Tarantino si confronta con l’agone puro, mette Bruce Lee in mano a King Hu, rilegge Chang Cheh sul rock’n’roll primitivo delle The 5.6.7.8’s (che non hanno bisogno di testo per imprimersi nella memoria, ma solo di un reiterato “Woo Hoo” così elementare da divenire catartico), prende una delle intuizioni di Musashi di Hiroshi Inagaki per fonderla con l’apocalisse dello sguardo di Takashi Miike, fa giocare La sfida del samurai di Akira Kurosawa con Deriva a Tokyo di Seijun Suzuki, fonde il western di Sergio Corbucci e quello di Giulio Petroni per rinnovare la propria idea di frammentazione dello sguardo. Tutto nasce nell’occhio, nel cinema, che è – come rammentava Alberto Grifi – l’evoluzione biologica di una lacrima, e contiene in sé dunque il concetto radicale di trauma, lesione/sogno, sogno che lede e ferita che immagina. Da qui il passaggio tra colore e bianco e nero, che serve anche a giocare una volta di più con il cinema, rimembrando l’impossibilità di superare il visto censura per “troppo rosso” che spinse Alfred Hitchcok a lavorare sulla bicromia in Psycho (Hitchcock, per quanto spesso non venga fatto, è uno dei numi tutelari del film, che mantiene memoria di intuizioni visive tanto de Il pensionante quanto di Marnie, ma perfino di un titolo meno noto come La moglie del fattore, da cui riprende l’idea della lista di nomi con cui avere a che fare); quindi l’utilizzo della silhouette, altra forma del cinema delle origini che sopperiva all’assenza della parola pronunciata; infine l’irruzione in uno scenario altro, quasi impossibile – il giardino è innevato, ma nel percorso dall’aeroporto alla “Casa delle Foglie Blu”, il locale dove si svolge il combattimento tra la Sposa e gli 88 folli, non c’è traccia di neve –, dove finalmente possono scontrarsi la protagonista con O-Ren Ishii.

È questo l’unico passaggio del film in cui Tarantino evoca in modo dichiarato la scansione videoludica, riecheggiando il concetto di mondo da superare per arrivare a quello finale, lo scontro “definitivo”: un rimando reso ancora più evidente proprio dallo scarto atmosferico, con l’interno della “Casa delle Foglie Blu” oramai vuoto – o meglio, vuoto di esseri viventi, ma stracolmo di cadaveri e di arti umani – che è diviso da un giardino innevato solo da uno shōji, la porta a scorrimento tipica della case nipponiche. Quello scorrimento, che è gesto grafico e visivo, fa da separatore/connettore tra esterno e interno, ma anche tra due eventi tra loro collegati ma dissimili, la lotta contro gli sgherri di O-Ren Ishii e quello contro la loro padrona. L’ironia di Tarantino è comunque sottile, perché di definitivo questo scontro non ha nulla, se è vero che l’obiettivo della protagonista è arrivare a Bill, e mancano ancora da regolare i conti con Budd e Elle Driver, che avrà invece un sapore e un tenore tutto americano, tra retaggi di Peckinpah (lo sguardo perso nel cielo di Budd che pronuncia “Quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire”) e la già citata rievocazione di Marnie. Lo scontro tra la Sposa e O-Ren è anche però la più netta dichiarazione di fratellanza tra il cinema di Tarantino e l’orizzonte asiatico, e nel caso specifico giapponese. Per quanto all’epoca dei fatti in pochi se ne siano resi conto, l’intera struttura narrativa di Kill Bill Volume 1 deve molto a Lady Snowblood, capolavoro di Toshiya Fujita del 1973 dal quale Tarantino riprende a sommi capi i temi dominanti della trama, alcune intuizioni visive (la presentazione degli antagonisti con freeze frame e nome scritto sullo schermo, il flashback pensato sotto forma di disegno, l’inquadratura dal basso, in soggettiva della vittima, dei carnefici, il già citato combattimento nella neve) e perfino una canzone, la splendida Shura no hana cantata da Meiko Kaji, ribattezzata nei titoli di coda di Kill Bill Volume 1 Flower of Carnage. Quel combattimento che prelude alla fine della “prima parte” è dunque il definitivo atto dialettico, una volta di più privato della parola, che Tarantino mette in atto per sottolineare il linguaggio universale dell’immagine in movimento, la sua capacità d’essere parte di un Tempo e contemporaneamente sovvertitore dello stesso. In principio, lo si è già scritto, non era il Verbo, né il Suono. In principio, per l’uomo moderno, era l’Immagine. Per questo il Cinema è l’arte d’oggi, e solo in un’epoca confusa e mediocre come quella attuale si può pensare di poterne fare a meno.

Info
Kill Bill Volume 1, il trailer originale.

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