L’ordine del tempo

L’ordine del tempo

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L’ordine del tempo, presentato Fuori Concorso a Venezia, è l’ultimo film di Liliana Cavani (assente dal grande schermo da vent’anni), che tenta di coniugare dramma e commedia, fisica e fede, in un film tristemente fuori fuoco, che annaspa in dialoghi banali e personaggi-macchietta, e ritrova solo in alcuni brevi momenti l’ispirazione più profonda del suo cinema.

Il tempo che resta

E se scoprissimo che il mondo potrebbe finire nel giro di poche ore? È quello che accade una sera a un gruppo di amici di vecchia data che, come ogni anno, si ritrova in una villa sul mare per festeggiare un compleanno. Da quel momento, il tempo che li separa dalla possibile fine del mondo sembrerà scorrere diversamente, veloce ed eterno, durante una notte d’estate che cambierà le loro vite. [sinossi]

È sempre stato un cinema dalle scommesse difficili, quello di Liliana Cavani. Ora, a novant’anni, la regista di Carpi torna sul grande schermo, dopo essersi dedicata per un ventennio alle regie televisive e teatrali. E vi torna con una delle sue scommesse più arrischiate: coniugare il suo cinema personalissimo, fatto di microcosmi allo sbando e in collisione con la Storia, con un racconto che prende come pretesto una trama da fantascienza apocalittica (l’arrivo di un asteroide interstellare che distruggerà il pianeta), per innestarvi una riflessione filosofico/fisica sulla vita e il tempo, attraverso il filtro – ed è qui la vera sfida, ma diciamo pure anomalia – della commedia all’italiana. Liliana Cavani, in oltre sessant’anni di attività, è stata documentarista per la Rai della prima metà degli anni ’60 (memorabile il suo Le donne nella Resistenza, del 1965), poi regista di piccoli film e successivamente di grandi coproduzioni internazionali, trattando però sempre temi forti, via via sempre più “scandalosi”; ed è stata regista di opere liriche, un’attività cominciata quasi per caso e divenuta poi la maggiore delle sue attività assieme al cinema. Non è invece mai stata una regista di commedie. Il che è decisamente insolito dal momento che, come ha scritto giustamente Alberto Anile nel 2021, all’interno del volume curato da Pedro Armocida e Cristiana Paternò in occasione della retrospettiva organizzata all’interno della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro: “C’è sempre poco da ridere nel cinema di Liliana Cavani. Negli argomenti, nello stile, nei contenuti l’umorismo è bandito. Alla regista non è mai interessato sbeffeggiare o sublimare ma penetrare dentro i problemi, metterli sul lettino operatorio, affondare nella carne per osservare da vicino il Male e le sue dialettiche”.

Naturalmente non stiamo parlando qui di commedia ridanciana, bensì di quel tipo di commedia seria, dal sorriso amaro. Non a caso (ma era poi il caso?) il co-sceneggiatore di Cavani è Paolo Costella, che dopo aver collaborato in passato con registi come Christian De Sica, Oldoini, Muccino e Genovese, ha contribuito poi al grande (ed esagerato) successo di Perfetti sconosciuti, che è, per certi versi, un perfetto esempio del tipo di commedia di cui stiamo parlando. Acre, dolente, rivelatoria delle miserie umane. Questa forma viene adoperata per dare vita a un film ispirato dalla lettura di un bellissimo libro divulgativo di fisica quantistica sulla nozione di tempo scritto da Carlo Rovelli (Adelphi, 2017), tra i fondatori della teoria dei loop (contrapposta a quella delle stringhe), il cui titolo, L’ordine del tempo, deriva dal testo dell’unico, breve frammento pervenutoci del filosofo presocratico Anassimandro: “Le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità e si rendono giustizia secondo l’ordine del tempo”. Nel suo libro piuttosto agile e discorsivo, seppure vertiginoso e non privo di passaggi complessi, Rovelli passa in rassegna le scoperte della fisica, da Aristotele ad Einstein, passando per Newton, riguardo al problema del tempo, a come noi lo percepiamo e a come in realtà (o con buona approssimazione) è: una nozione sfuggente, interconnessa, non univoca, tantomeno oggettiva: un tempo senza un oggi, senza un presente valido universalmente, ma solo localmente, addirittura inesistente a livello di tutte le equazioni fisiche elementari che descrivono il mondo. Un tempo che eppure esiste, ma in una maniera assai complessa e del tutto controintuitiva, laddove il nostro modo di intenderlo deriva in primo luogo dalla fisica newtoniana, nonché nel funzionamento stesso del cervello umano e del suo bisogno di dare un ordine al mondo.

Cosa resta dunque di un libro, quello di Rovelli, che toglie letteralmente il tempo da sotto i piedi? Molto poco, a dire il vero. Di tempo, in senso specifico, si parla solo in apertura, durante una conversazione tra l’avvocata Elsa (Claudia Gerini) e la figlia liceale che sta preparando una tesina sui diversi termini con cui veniva indicato e differenziato nell’antica Grecia (chronos, aiòn, kairos, etc.), un passaggio fra l’altro assente nel libro. Ma nel momento in cui il fisico Enrico (Edoardo Leo) si trova a dover confermare a malincuore ai suoi amici, ritrovatisi nella bella casa sul mare di Elsa e Pietro (Alessandro Gassman), che un grosso asteroide interstellare si sta avvicinando alla Terra a velocità spropositate e che c’è un effettivo rischio di impatto, cui seguirebbe la distruzione dell’intero pianeta, il tempo diventa subito qualcosa di diverso. Diventa cioè quello che ci è più familiare e di cui Rovelli parla nella terza e ultima parte del libro: il tempo come prodotto della mente umana, ovvero essenzialmente, come memoria, che è poi la nostra sorgente di identità. Dinnanzi al pensiero della morte il tempo ci riporta immediatamente alla nostra finitezza, al senso o al non senso della nostra stessa esistenza. Un tema affascinante e inestinguibile, ma che qui emerge a fatica, soffocato da battute da mediocre fiction TV (“Ma perché la nostra storia è così?”, “Perché cerchiamo l’intensità”), da una commedia “di caratteri” espressa da interpretazioni per gran parte spaesate e fuori fuoco. Le riflessioni, i rimpianti e le confessioni che emergono (i soliti matrimonni poco convinti, gli amori veri ma mai consumati, i tradimenti, il tutto “aggiornato” all’epoca del pansessualismo…) sanno di trovarobato, di stantio, più che scaturire da una riflessione urgente e profonda. E, cosa grave, non fanno neanche ridere. Si resta perciò sospesi tra giudizio e identificazione nei riguardi di questi individui di estrazione alto borghese, quasi tutti di grande successo e con posizioni importanti, ma che suscitano ben poca simpatia o empatia: altra anomalia, questa, dato che l’adesione verso i propri personaggi nel cinema di Cavani è sempre stata scandalosamente rovente, viscerale, a prescindere da tutto, da giudizi etici o ancor meno da pregiudizi moralistici. Oltretutto la sensazione è che l’asteroide debba colpire solo quelo specifico luogo, quella casa in spiaggia con i “nostri” chiusi dentro a commiserarsi, e non il resto del mondo. E questo è inevitabilmente deludente in un film di Liliana Cavani, che ha sempre o quasi avuto la capacità di far riverberare la vita dei suoi personaggi e delle loro relazioni problematiche nel grande flusso della Storia, e viceversa. Si pensi all’Antigone contemporanea messa in scena ne I cannibali, all’ex SS Max e alla sopravvissuta ebrea Lucia de Il portiere di notte, alla Napoli liberata ma fatiscente di Curzio Malaparte ne La pelle, ma anche al Galielo, e al Milarepa dei film omonimi, ai vari Francesco d’Assisi (tre nell’arco di trent’anni, fra cinema e televisione), o alla “pazza” Anna rinchiusa in un manicomio de L’ospite, uno dei suoi primi film, e fra i più belli e i meno ricordati; o persino alla strana amicizia tra il killer senz’anima e il corniciaio malato terminale di Il gioco di Ripley (Ripley’s Game, 2002), suo penultimo film per il cinema.

Sopravvivono due scene in cui il suo cinema ancora ci parla: quella in cui i personaggi si mettono a ballare sulle note della struggente Dance Me to End of Love di Leonard Cohen, che vediamo cantare in TV, una scena forse un po’ facile, ma che almeno ci risparmia la fitta rete di dialoghi superficiali e dimenticabili di questi personaggi che annaspano nei cliché fin troppo rimasticati della commedia contemporanea (soprattutto romana). Molto più centrata e riconoscibile è invece la sequenza dell’incontro tra la giovane fisica Anna e una matura suora (Francesca Inaudi e Ángela Molina, entrambe magnifiche) in un’antica chiesa medievale, spoglia, taciturna e rasserenante. Personaggio riconoscibilissimo all’interno dell’opera di Cavani, Raffaella incarna la preghiera, ma non la preghiera “istituzionale”, formale: rappresenta invece il sentimento umano dell’espolrazione di sé e di proiezione verso l’assoluto, che vince lo spazio e il tempo, l’altra faccia della fisica che anela all’infinito e cerca di vedere oltre quello che la fisica e i telescopi possono vedere. Come Francesco d’Assisi, della cui figura Cavani è rimasta affascinata proprio per la sua perenne attualità (o inattualità), perché fuori da ogni schema. In questo senso, allora, il dialogo tra Anna e suor Raffaella, autentico piccolo film dentro al film, ambientato peraltro nell’unica altra location oltre alla casa sulla spiaggia, rinverdisce per un attimo i fasti del cinema più autentico, spirituale e di ricerca di Cavani e ritrova il suo vero tempo. Ma è davvero un po’ poco.

Info
L’ordine del tempo sul sito della Biennale.

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