Jay Weissberg: Il naufragar mi è dolce in questo mare di film muti
Da otto anni alla guida delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, Jay Weissberg, critico cinematografico di The Film Verdict, chiacchiera con noi, come consuetudine, dell’ultima edizione, la quarantaduesima, del festival, una delle poche manifestazioni al mondo interamente dedicata al silent cinema. [foto di ©Valerio Greco]
Parliamo del documentario Amazonas, Maior Rio do Mundo. Mi puoi raccontare le circostanze del suo ritrovamento?
Jay Weissberg: Alla fine di gennaio sono stato a Praga per tre giorni, al Národní filmový archiv, per vedere tante cose. Alcune che abbiamo quest’anno le ho prese in quell’occasione, tipo Circe the Enchantress o The Fox di Harry Carey. Poi sono tornato a casa e una settimana dopo ho ricevuto una mail da una dei curatori dell’archivio. Mi ha detto: «Abbiamo dimenticato di farti vedere questo documentario, probabilmente una produzione degli Stati Uniti, probabilmente del 1925, che si intitola The Wonders of the Amazon». Mi è bastato fare un click e in tre secondi ho saputo che non era un film americano, ma nemmeno un film del 1925. Per forza doveva essere un film più vecchio. E poi ho cominciato a fare un po’ di ricerche. Ho trovato che c’era questo film, di Silvino Santos, considerato perduto. Dalle le cose che ho letto in internet, ho pensato che fosse quello il film. Anche per lo stile paragonabile al suo film successivo del 1922. Poi ho trovato online una tesi di laurea di uno studente in Brasile, Sávio Luis Stoco, a Belém, su questo regista. L’ho subito contattato e lui, rispondendomi, si è detto molto stupito che esistesse una copia sopravvissuta del film e che si trovasse a Praga. Si trattava di una scoperta importante non solo per il Brasile ma anche per il mondo, per il discorso sull’Amazzonia e sugli indigeni, in questo momento molto importanti. Ho sentito una ricercatrice di Praga, che parla portoghese perfettamente, e il cui campo di studi è proprio questo. Abbiamo scoperto che Silvino Santos era legato a un industriale peruviano davvero infame. Anche prima di avere questa informazione, avevamo l’idea dello sguardo colonialista. Lui del resto era portoghese. Però vanno dette due cose. Le didascalie non erano scritte da lui ma dal distributore Gaumont in Inghilterra nel 1921, poi tradotte in varie lingue incluso il ceco. Quindi le didascalie vanno considerate a parte dalle immagini. Poi l’idea che queste immagini esistano ora è una cosa importante anche per gli indigeni, anche se c’è questo sguardo, ma è l’unico. E riguarda la possibilità per loro di vedere forse i bisnonni. È una cosa incredibile. Questa è la bellezza. Ho pensato al film Dieu est une femme di Andres Peyrot, che era a Venezia. È la storia di un film maledetto girato negli anni Settanta da un regista francese, andato in un’isola di Panama per filmare una comunità di indigeni. Poi, causa bancarotta, ha perso tutti i soldi. La banca si è presa la pellicola, che era quindi perduta. Questo regista ora ha trovato la pellicola e l’ha portata a Panama per proiettarla alla gente locale. E gli indigeni dicono: «Sappiamo che questo è lo sguardo dell’uomo bianco, ma questa è mia nonna. Quel bambino sono io». E questa è una cosa incredibile. Ci sono delle cerimonie nel film che loro non fanno più, anche se parliamo solo di 40 anni fa.
Venendo all’edizione di quest’anno, come hai detto in conferenza stampa, predomina l’evasione con tanto slapstick, la commedia, il western. È una cosa voluta oppure è capitato così assemblando il programma?
Jay Weissberg: Tutt’e due le cose. Purtroppo, siamo in un momento della storia molto difficile, e sembra andare sempre peggio. Il buffo è che in altre presentazioni che avevo scritto per il catalogo, dicevo che era stato un anno difficile, ma quest’anno… più che mai. Quando ho ricevuto prima l’idea di continuare la rassegna di slapstick ho pensato che fosse un’ottima cosa. Poi ho messo anche i film molto potenti, e pesanti, come Pêcheur d’Islande, Vendémiaire, La strada. Anche quelli sono importanti, ma la bellezza delle Giornate del Cinema Muto è per me rappresentata da tutto lo spettro del cinema di quel periodo. E dobbiamo mettere il nostro sguardo anche al cinema popolare e non proporre solo i capolavori. Li abbiamo studiati all’università quelli, ma non il cinema popolare o quasi mai. Una delle cose importanti di un festival in cui si vedono film dalle 9 della mattina fino a quasi mezzanotte, è l’idea di immersione. Una settimana di immersione nel periodo. Solo così si può capire il periodo, non in una classe con un professore. Anche se a un certo punto non ricordi le trame. Non ricordi se quel momento, quella scena provengano da quel film francese o quel film americano. Ma non ha importanza. L’importante è il tutto, l’idea di kermesse.
Coerentemente c’è poi questo finale di Chaplin più Keaton, ovvero Il pellegrino e La palla n° 13.
Jay Weissberg: È arrivato all’improvviso, solo perché il musicista Daan van den Hurk mi aveva detto che era in procinto di scrivere una partitura orchestrale. Gli ho chiesto per quale film, e lui mi ha risposto La palla n° 13. Bene! Poi mi è arrivato un messaggio dal Chaplin Office, che diceva essere pronto un nuovo restauro de Il pellegrino.
Come mai quest’anno non ci sono i film giapponesi o in generale orientali?
Jay Weissberg: Sicuramente è una mancanza, voglio fare qualcosa nell’ambito del cinema asiatico nel 2024. È strano perché gli archivi in Giappone, in Cina e a Taiwan non mi mandano mai mail per segnalarmi i loro restauri o propormi un programma. Sono sempre io che devo contattarli. Il che non sarebbe un problema. Ma quest’anno avevo già tantissime cose, non c’era spazio per grandi retrospettive. L’unica cosa che abbiamo è il primo lungometraggio nippo-americano, The Oath of the Sword del 1914, dove c’è un attore che diventerà un importante regista in Giappone negli anni Trenta, Yutaka Abe. Abbiamo una copia del George Eastman Museum. Interessante anche perché prodotto da una casa di produzione fondata da americani e giapponesi. Poi c’era qualche corto giapponese nel programma di Pierre Loti.
Invece l’assenza di film sovietici riguarda la situazione attuale?
Jay Weissberg: Impossibile per me fare film che provengono dalla Mosfilm, anche se ricevo ancora richieste da loro. Ci sono persone bravissime dentro quell’archivio. Ma è un’istituzione ufficiale del governo, quindi non è possibile. Ci sono comunque tantissimi film sovietici in altri archivi, a Vienna, per esempio. Avevo l’idea di mettere un film ucraino quest’anno, per vari motivi, la guerra soprattutto. Ma alla fine era arrivato troppo tardi, il programma era già pieno. Ma per il futuro vorrei collaborare con il Centro Dovženko di Kiev. Quest’anno ho più film francesi e tedeschi che mai, e meno film americani, il che è una cosa buona. Sono un americano in un festival italiano, non voglio inserire troppi film americani, anche se si tratta di film molto popolari.
C’è qualcosa del programma di quest’anno cui tieni particolarmente?
Jay Weissberg: A parte Amazonas, Maior Rio do Mundo, c’è Conrad in Quest of His Youth, un film che avevo visto finora in un copia dvd in pessime condizioni. Ciononostante, mi sono reso conto subito che si trattava di una cosa bellissima. Mi piace molto l’attore, Thomas Meighan, un attore ormai dimenticato. Adoro il romanzo. Il romanzo è più acerbo del film. Un film che parla della nostra nostalgia per la gioventù, una nostalgia falsa, pericolosa. Nel film è meno pericolosa di quanto lo sia nel romanzo. Del resto per il 1920 non è una sorpresa. È un film per adulti, non nel senso di una cosa sessuale, è un film sulla maturità. William C. deMille è fantastico, è molto più sensibile alle emozioni. Oltre a Thomas Meighane, anche l’attrice Kathlyn Williams è incredibile. Ora che la Library of Congress ha fatto il restauro, sono così contento di avere l’opportunità di proiettare questo film che amo moltissimo. E poi Circe the Enchantress. Avevo visto le foto di questo film quando avevo circa 11 anni. Quando le ho viste ho sentito il desiderio di vedere il film. Spesso è indicato in vari testi come perduto, ma esiste una copia a Praga, non completa ma la trama c’è tutta. È incentrato su Mae Murray che prima di essere attrice era una ballerina, una star del Ziegfeld Follies. In La vedova allegra di Erich von Stroheim sarà impegnata in un walzer, ma qui abbiamo l’occasione di vederla come una ballerina di jazz. Davvero un film divertente.
Ancora una volta vorrei proporti una riflessione su come il cinema muto fosse incredibilmente avanti. Penso al film Gli eroi del deserto di William Wyler che abbiamo visto in questi giorni, così pieno di soluzioni di regia estremamente sofisticate.
Jay Weissberg: Parliamo del 1929, un momento in cui il cinema è così fluido. Lo è dal ’27/28. Ho visto il Napoléon di Abel Gance quando avevo 15 anni e poi non l’ho più rivisto per 30 anni. Quando l’ho rivisto, a Londra, mi sono reso conto di aver interiorizzato la memoria dei movimenti della macchina da presa. Li avevo ancora in testa dopo 30 anni. E questa è la straordinaria bellezza del cinema muto. Si può dire lo stesso per Gli eroi del deserto. In quel momento è tutto collegato. L’emozione, il movimento, la bellezza del quadro. La purezza del cinema muto.
A proposito del Napoléon, ci sarà ancora l’occasione di vederlo qui?
Jay Weissberg: Spero nel 2024 e nel nuovo restauro della Cinémathèque Française. Se sarà pronto perché viene sempre posticipato.