Achilles

Achilles

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Achilles, primo lungometraggio del regista iraniano Farhad Delaram, ha tutto il pregio delle buone intenzioni e anche una buona scrittura di dialoghi e personaggi. Si perde però in parte in un anelito “poetico” che finisce per indebolire le immagini a scapito di un’insistenza troppo lampante sul simbolico, portando spesso il film nelle secche del didascalismo. In concorso alla Festa del Cinema di Roma.

I muri parlano

Farid, detto Achilles, fa i turni di notte come assistente ortopedico in un ospedale di Teheran. Una sera viene chiamato nel reparto psichiatrico per assistere una paziente che si è ferita al polso colpendo le pareti. Un tempo regista, Farid ha abbandonato la sua vita precedente per lavorare in ospedale, dormendo in auto. L’incontro inaspettato con una paziente psichiatrica, Hedieh, lo scuote dalla sua apatia. Farid cerca di rendere più piacevole la permanenza in ospedale di Hedieh con gesti gentili, fino a quando non scopre che è una prigioniera politica, sedata e confinata nel reparto. Quella che inizia come una breve fuga si trasforma in un rocambolesco viaggio da Teheran al lago Urmia e poi al Mar Caspio, nel tentativo di salvare Hedieh…[sinossi]

Non è facile emettere giudizi su un film che vede la luce in un Paese in cui solo pochi giorni fa è stato accoltellato a morte il regista ottantenne Dariush Mehrjui assieme a sua moglie, in cui ragazze adolescenti vengono stuprate e uccise per essersi tolte l’hijab in segno di protesta e in cui vengono incarcerati giornalisti, premi Nobel per la pace e assieme a loro chissà quanti altri dissidenti, veri o presunti. Un Paese che, a ogni modo, i cineasti (e non solo loro) continuano a sfidare. Non è facile perché inevitabilmente ci si pone il problema di cosa, a questo punto, un regista può dire o non dire, mostrare od omettere. E se è vero che quella iraniana è, da oltre trent’anni almeno, una delle cinematografie più interessanti e vitali del panorama internazionale, di certo non tutti possiedono la capacità di tramutare adeguatamente l’attualità in segno, di “mimetizzarla” dietro e dentro le immagini, come hanno fatto negli anni maestri come Naderi, Kiarostami, Panahi e altri.

Il lungometraggio d’esordio del trentaquattrenne Farhad Delaram, già autore di diversi cortometraggi, tra cui Tattoo (2019), vincitore dell’Orso di Cristallo a Berlino, è pregevole negli intenti ma non particolarmente incisivo nei risultati. A pesare è lo stesso impianto estetico, sempre troppo teso al “poetico”, un concetto vago e insidioso, dato che si rischia poi d’inciampare nel simbolismo più abusato, o nella metafora più ovvia e scoperta. Molto meglio la scrittura dei dialoghi che testimonia di una rabbia e una disperazione a stento contenibili, di un senso di impotenza lancinante che non si può far altro che abbracciare. Sono questi i sentimenti che albergano nel protagonista, Farid (Mirsaeed Molavian), detto Achilles, di padre turco, che all’inizio del film se ne sta seduto a leggere Fame di Knut Hamsun. Anche Farid, come il celebre autore norvegese, ha abbandonato la sua attività artistica, non di romanziere ma di regista. La sua fame, tutta interiore, è divenuta già inedia, un’assuefazione al dolore e all’ingiustizia che lo hanno portato all’abulia e al cinismo. Né l’arte né la religione lo ispirano più, e a un’infermiera in ospedale confessa: “Dio mi ha deluso da tempo”. Ed è proprio questa infermiera, nell’ospedale dove Farid ha trovato un impiego, che gli fa conoscere una paziente ricoverata per disturbi mentali. Quando Farid si affaccia nella stanza della donna, subito si ritrae, perché è nuda. Ma la collega gli dice di non aver paura, perché non è mica una Jinn. Eppure Hedieh (Behdokht Valian) – questo il nome della ricoverata – in qualche modo lo è, una Jinn, e cioè un’entità in bilico fra la terra e il cielo, una creatura della Soglia, del confine. Hedieh è una bella donna, sulla quarantina, ma coi capelli già ingrigiti. E soprattutto è, in realtà, una prigioniera politica, trattenuta in quell’ospedale per accordi segreti presi con il governo. Questa donna misteriosa esercita – seppur involontariamente – una sorta di incantesimo su Farid, che a un certo punto decide di portarla via da lì.

Achilles funziona finché rimane ancorato ai volti e alla realtà, al dato oggettivo, per così dire, ed è per questo che la prima parte è forse la migliore. Farid è oramai insofferente a tutto, a se stesso e agli altri, discute a lungo col suo amico e datore di lavoro, poi con la sua fidanzata, dalla quale non torna oramai da tempo, preferendo dormire in macchina su un altopiano poco fuori città. Quando Farid scopre che né Hedieh né la sua compagna di stanza riescono a dormire, per via dei “muri che parlano”, la reazione di Farid, è decisamente molto poco ortodossa: anziché di cercare di farle ragionare, le prende in parola e, senza dire nulla, inizia a incollare lunghi pezzi di scotch sulle pareti, come per tappare dei buchi (che non ci sono) da cui arrivano queste voi. Presto le due donne lo imitano, trovando così una motivazione e un senso di improvvisa sicurezza. E quella notte infatti riescono a dormire.
Dopo la fuga dall’ospedale il film prende la forma di un road movie dolente e quasi onirico (ben 2.000 i chilometri percorsi da cast e troupe, nonostante il budget esiguo), ma è un viaggio che non sa di rinascita, di nuova occasione, sembra piuttosto un movimento da fermi, un non andare in nessun luogo. Tuttavia ogni tappa, ogni luogo si propone come decisivo in sé e le immagini aspirano ad essere a tutti i costi significative, anziché significanti: che sia il mare di notte, con la donna che cammina tra le onde come uno spirito, o il piccolo schermo allestito sulla spiaggia, per un piccolo pubblico, su cui è proiettato un film. O ancora la sponda del lago salato semi-prosciugato, un luogo senza vita e senza speranze, proprio come l’Iran, sembra affermare il regista. E ovviamente il muro, immagine-simbolo che torna a più riprese. Poi c’è la vecchia stanza di Farid, rimasta tale e quale nella casa paterna, con in bella vista tanti libri e soprattutto il poster de Il grido di Michelangelo Antonioni, autore che il regista iraniano ha confidato in un’intervista essere fra le sue più grandi fonti d’ispirazione.

Il film in qualche modo si spende (e in parte si perde) proprio nella ricerca della forma più adatta da dare a un grido. Ma, paradossalmente, anziché far emergere direttamente dalle immagini e dal loro concatenamento quel coacervo di rabbia e di flebile speranza che albergano nel petto del protagonista, Delaram si preoccupa troppo della superficie, dell’effetto estetico e simbolico, del messaggio, finendo così per disinnescare in buona parte la forza delle immagini stesse, come se non credesse abbastanza nella loro evidenza. Ne è la prova il cartello finale, che recita: “Dedicato al popolo iraniano che non tollera più i muri”, una sorta di epigrafe finale inutile, dato che tutto il film, e in particolare l’ultima sequenza, questa (giusta) insofferenza ce l’ha già illustrata in tutti i modi possibili.

Info
Achilles, il trailer.

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