Fly Me to the Moon – Le due facce della luna

Fly Me to the Moon – Le due facce della luna

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Fly Me to the Moon – Le due facce della luna di Greg Berlanti, in vista del progetto spaziale già in atto della NASA per riportare l’uomo sulla luna, si propone come commedia pronta a sostenerlo, giocando al contempo con intelligenza e ironia sui complottismi relativi al presunto finto allunaggio del 1969 e imbastendo una vicenda basata sul marketing e sul ruolo sempre più strategico assunto dalle immagini nel mondo contemporaneo.

Il dito e la luna

Assunta per rilanciare l’immagine pubblica della NASA, Kelly Jones (Johansson), ragazza prodigio del marketing, si scontrerà con Cole Davis (Tatum), direttore del programma di lancio, creando scompiglio nel suo già difficile compito. Quando la Casa Bianca ritiene che la missione sia troppo importante per fallire, Kelly Jones viene incaricata di inscenare un finto sbarco sulla Luna come piano di riserva. A quel punto il conto alla rovescia inizia davvero. [sinossi]

In questi ultimi anni è andato rinnovandosi l’interesse per i voli spaziali, che ha visto da un lato il coinvolgimento nel settore di aziende private, dall’altro la preparazione di un nuovo allunaggio da parte della NASA. I test sono già cominciati, ma per poter vedere degli astronauti posare di nuovo il piede sul nostro asteroide bisognerà aspettare, se tutto va bene, il 2026. Per allora saranno trascorsi 57 anni da quando Armstrong e Aldrin, il 20 luglio 1969, piantarono la bandiera a stelle e strisce sulla superficie lunare. O non è andata così? Fly Me to the Moon (il sottotitolo italiano recita Le due facce della luna), quarto lungometraggio di Greg Berlanti, è un discreto film medio servito da una sceneggiatura a tratti perspicace. Che ribadisce una cosa molto semplice: la verità, oggi, è una merce, sottoposta a un’incessante guerra tra uno o più avversari combattuta a colpi di fake news. Affermarla, ribadirla, anche con prove documentate, è del tutto inutile. Oggi che le notizie sono più che mai falsificabili, e spesso falsificate, oggi che lo spirito critico viene da molti confuso con la messa in discussione aprioristica di ogni “verità ufficiale” o “narrazione mainstream“; oggi che persino la scienza e i fact checkers sono considerati pedine al soldo dei “poteri forti”, nulla più può essere provato. Dal crollo delle Torri Gemelle ai cerchi del grano, dalle scie chimiche, al Covid-19, dagli UFO ai cambiamenti climatici, tutto è il contrario di tutto. Viviamo nel tempo della relativizzazione assoluta della verità. Mai epoca fu filosoficamente più lontana dal principio del rasoio di Occam: la versione dei fatti più semplice e dunque più probabile viene rifiutata senza appello a beneficio di quella più contorta e macchinosa che solo le menti più “illuminate” o risvegliate” sono in grado di cogliere, imboccate ovviamente dagli spacciatori di fake news.

A ciò si aggiunga la smaterializzazione della realtà dovuta alla centralità sempre maggiore che le immagini hanno nella nostra vita, e che si fanno centrali proprio a riguardo di uno dei primi grandi complotti del secolo scorso, quello dello sbarco sulla Luna: avvenne davvero o fu girato in studio, magari proprio da Kubrick, come già qualcuno sosteneva all’epoca? Anziché respingere al mittente questa teoria paradossale ma ancora oggi molto radicata, Fly Me to the Moon punta con ironia su un intreccio paradossale, oltre che metacinematografico: il viaggio c’è stato, ma c’è stato anche il tentativo, da parte di una figura facente capo allo stesso Nixon (ancora oggi, nell’immaginario collettivo, il presidente villain per eccellenza) di mandare in onda non l’allunaggio reale, bensì uno girato in studio, proprio lì, in uno degli hangar di Cape Canaveral, in modo da poter controllare le immagini, indirizzandole verso l’obiettivo primario per il gli interessi del Governo. Il progetto, denominato Artemis (come la dea greca della luna), serve a battere a qualunque costo i “rossi”, in modo che gli americani non debbano svegliarsi, come recita sornione il Moe Berkus di Woody Harrelson, “sotto una luna comunista”. Ed è così che l’oscuro regista Lance Vespertine (Jim Rash) viene ingaggiato per girare la finzione con la quale sostituire la verità.

A condire il tutto e a renderlo più veicolabile allo spettatore medio, c’è la storia d’amore tra i due protagonisti, in ogni caso convincenti e ben assortiti, che rappresentano i due poli opposti dell’atteggiamento di fronte alla verità: uno, Cole Davis (Channing Tatum) a difenderla senza compromessi, l’altra, Kelly Jones (Scarlett Johansson) per la quale mentire è facile come respirare. La sceneggiatura dell’esordiente Rose Gilroy – figlia dello sceneggiatore Dan Gilroy, anche regista di Nightcrawler, e di Rene Russo – è schematica ma non banale, e qua e là snocciola battute forse un po’ prevedibili ma anche funzionali nel continuo rilancio del gioco verità/inganno: come quando Kelly, dopo uno degli ennesimi capricci di Vespertine, commenta: “Forse era meglio chiamare Kubrick”, o quando sempre lei, dopo aver ascoltato in diretta la celebre frase di Armstrong (“Un piccolo passo per l’uomo e un grande passo per l’umanità”), ammette che a lei, pur così abile negli slogan, non sarebbe mai venuta in mente.

Berlanti, che alterna film personali ad altri più “alimentari” (il mediocre Tre all’improvviso, Life as We Know It, 2010) , è stato chiamato a sostituire Jason Reitman nel progetto il cui titolo inizialmente doveva essere per l’appunto Project Artemis. Facile immaginare perché fosse stato scelto Reitman, basti pensare al suo film d’esordio, Thank You for Smoking (2005), tutto incentrato sul mondo della pubblicità che gravitava attorno alle grandi aziende del tabacco. Quest’ultimo avrebbe avuto forse un approccio più acido e graffiante alla materia; Berlanti invece tende a ricomporre le asperità in un finale che più roseo non si potrebbe. Se ciò funzionava perfettamente in una commedia deliziosa e intelligente come Tuo, Simon (Love, Simon, 2019), che celebrava l’identità gay con sana leggerezza, qui finisce per disperdere buona parte delle argute intuizioni, oltre che a finire per fare del personaggio di Vespertine – e questo è davvero paradossale – niente di più che una stereotipatissima macchietta gay. Un film che, tirate le somme, parla in tono bonario e paternalistico, assolve tutto e tutti, lasciando intravedere la sua fondamentale natura propagandistica in vista dei nuovi tuffi nello spazio: come se a dirigerlo ci fosse stata la vera Kelly Jones, la regina del marketing.

Info
Fly Me to the Moon, il trailer.

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