Il grande caldo

Il grande caldo

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Con Il grande caldo il cinema americano di Fritz Lang raggiunge il suo apogeo, la sua vena più autentica, nell’atto di smascherare le pulsioni più oscure che si agitano sotto la maschera dell’individuo e dell’intera società civile.

Atto di violenza

Il suicidio di un agente di polizia, spinge il detective Dave Bannion a indagare più a fondo nel caso, scoprendo una rete di corruzione di vasta portata che vede in cima alla lista il nome del boss Mike Lagana, ma che si allarga fino a cinvolgere i vertici della polizia. Ben presto Bannion e la sua famiglia si ritrovano in un pericolo mortale. [sinossi]

Troppo facile, per certi versi, troppo scontato affidare a Fritz Lang la regia di un pugno di film di spionaggio antinazisti realizzati durante gli anni Quaranta. Scontato ma comprensibile, dato che il cineasta austriaco era fuggito dalla Germania hitleriana (anche) in risposta alla proposta fattagli da Goebbels di ricoprire il ruolo di direttore artistico dell’UFA. Duello mortale (1941), Anche i boia muoiono (1943), Il prigioniero del terrore (1944) e Maschere e pugnali (1946) sono tutti, quale più quale meno, degli ottimi film, ma non è in questi che l’astro di Lang brilla della sua luce (anzi, della sua penombra) più intensa. Non era nella propaganda – e dunque nella luce più che mai “nitida” dell’ideologia – che poteva manifestarsi il suo genio più alto: non quella psicotica del Terzo Reich, ma neanche quella progressista statunitense, oramai a un passo dall’autoproclamarsi faro del mondo. La poetica di Lang più limpida, più acuta, più fruttuosamente ambigua, la si ritrova compiutamente nei territori del noir, un genere – per alcuni più che altro uno stile – forgiato proprio dalle macchine da presa dei cineasti esuli del cinema espressionista. E che Lang, in particolare, contribuì a sagomare e connotare in maniera inconfondibile. Quel noir che crebbe e prosperò proprio sotto il naso puritano dei censori del Codice Hays, un humus culturalmente opposto a quello della Repubblica di Weimar, all’interno del quale era sorto il cinema di Fritz Lang.

Nei film hollywoodiani non c’era più spazio per dei protagonisti criminali, come invece era avvenuto negli anni Trenta con il filone dei film sui gangster. I protagonisti ora dovevano essere dei poliziotti, oppure normali cittadini ingiustamente accusati di qualche crimine. Non solo, ma nel film di cui ci occupiamo, Il grande caldo, la parola “gangster” non viene mai pronunciata, sostituita dall’eufemismo “ladro” (thief, in originale). Pertanto, è su questa falsariga che si innesta il cinema più autenticamente americano di Fritz Lang, nella misura in cui, cioè, il viennese fu capace di individuare e denunciare, del sistema-America, tutte le le contraddizioni e i chiaroscuri. Il meno riuscito dei suoi film oltreoceano, You and Me (1938, mai distribuito in Italia), si apre con un’ironica canzone “didascalica” di Kurt Weill che ammonisce contro il furto, perché nella società dei consumi tutto ha un prezzo. Chi ruba, deve pagare. A volte, però, chi si ritrova a pagare non è il vero colpevole, ma solo un poveraccio che ci va di mezzo. Un aspetto, questo, che Lang fece subito suo, coadiuvato naturalmente dalle sceneggiature a lui affidate dai produttori degli Studios, che avevano ben presente di cosa fosse capace il regista di un’opera potente e controversa come M – Il mostro di Düsseldorf (M, 1931): dov’è la soglia in cui la voglia di giustizia si arresta e subentrano il linciaggio, la vendetta sociale? A farne le spese sono tanto il Joe Wilson di Spencer Tracy, quanto l’Eddie Taylor di Henry Fonda, protagonisti rispettivamente di Furia (Fury, 1936) e Sono innocente! (You Only Live Once, 1938), i primi due capolavori hollywoodiani di Lang. In entrambi, due uomini comuni, un operaio e un piccolo criminale, si ritrovano triturati dalla macchina cieca della “giustizia”. A questo meccanismo, seppure in un modo molto diverso, non sfugge nemmeno Dave Bannion (Glenn Ford), protagonista de Il grande caldo. Un poliziotto onesto, un integerrimo padre di famiglia con il brutto vizio di dire sempre quello che pensa e di non accettare le restrizioni imposte dai superiori alle sue indagini. Il materiale ricavato dal romanziere di hard-boiled William P. McGivern e mediato dall’ex giornalista e sceneggiatore Sydney Boehm, a contatto con la poetica langhiana va a plasmare uno dei massimi capolavori di Lang, nonché del cinema americano degli anni Cinquanta.

Il grande caldo contiene diverse scene che, pur avvenendo fuori campo, sono molto forti, per l’epoca finanche scioccanti: l’esplosione dell’auto con dentro la giovane moglie di Bannion; Debbie Marsh che viene sfregiata dal suo amante, il criminale Vince Stone, che le getta in faccia del caffè bollente; infine, ancora Debbie che si strappa via la benda, mostrando l’orrenda cicatrice che le deturpa un lato del volto: una scena dal brivido horror di cui si ricorderà, fra gli altri, il Georges Franju di Occhi senza volto (Les Yeux sans visage, 1960). Il film si apre su di un un uomo, un ufficiale di polizia, che si spara alla testa, in semisoggettiva, e prosegue con una serie di omicidi. La violenza, nel Grande caldo, pervade ogni fotogramma, persino quando è latente, come nei teneri quadretti famigliari in casa Bannion, uniche scene illuminate da una luce calda e uniforme, scene che rendono ancora più intollerabili gli accadimenti successivi. Per il resto, seppur lontano dagli stilemi più vistosi della stagione espressionista, a dominare, in un film che si gioca quasi tutto negli interni, sono la penombra e il chiaroscuro. La violenza inarrestabile pervade l’intera città e non si limita alle sue manifestazioni più estreme ed esplicite. Pochi anni prima, Jules Dassin e Abraham Polonski, fra gli altri, avevano svelato con i loro noir realisti l’organizzazione piramidale della malavita, sempre meno pittoresca ed eccezionale, sempre più pervasiva e tentacolare, intrecciata e collusa con la politica e con l’imprenditoria. Nel film di Lang, il Mike Lagana interpretato da Alexander Scourby, ovverosia il boss, evita accuratamente di commettere crimini in prima persona e affida il lavoro sporco ai suoi sgherri, soprattutto il suo braccio destro, Vince (un Lee Marvin tagliato per il ruolo). Ma la cosa peggiore è che sono gli stessi vertici della polizia, in affari con Lagana, a mettere i bastoni tra le ruote al giovane e volenteroso sergente Bannion. Il loro mettersi di traverso, l’ingiustizia con cui lo ostacolano, persino dopo che è rimasto vedovo, non sono meno violenti rispetto agli atti criminosi veri e propri, anzi, per certi versi sono peggiori, più dolorosi, in quanto provienti da quella che dovrebbe essere la “parte giusta”.

Tutto questo è troppo anche per un uomo giusto come Bannion, la cui tenuta morale comincia a sfaldarsi e a cedere al suo desiderio di vendetta. Per questo, a un certo punto, si ritrova a gettare via il suo distintivo, proprio come farà diciotto anni dopo l’eastwoodiano ispettore Callaghan nel primo capitolo della serie a lui dedicata: se da qui in poi, la figura del poliziotto decaduto e autarchico si trasformerà mano mano in una figura-cliché, un pre-testo di tanti film noir e dei polizieschi a stelle e strisce dei decenni a venire, qui, al contrario, raggiunge il punto di massima incandescenza, bruciando al calor bianco del prototipo. Questa logorante tensione morale, nelle mani di Lang, non diviene mai moralista: fino all’ultimo lo spettatore non può mettere la mano sul fuoco sul fatto che Glenn Ford, con quegli occhi limpidi e rassicuranti ora induruti dall’odio, non vada a macchiarsi di un crimine indelebile, un dubbio che Lang fa sorgere anche al cospetto di altri attori “senza macchia” come Tracy o Fonda. Un altro aspetto fondamentale del Grande caldo sono le figure femminili. Katie Bannion, a prima vista la tipica mogliettina americana fifties, mostra senso dello humor, sprona il marito a non cedere mai ai compromessi e gli ruba un sorso di whisky e qualche tiro di sigaretta, come un’improbabile Marlene Dietrich in grembiule. E come la Jo/Sylvia Sidney di Sono innocente!, è pronta a condividere fino in fondo il destino del suo compagno.

Bertha Duncan (Jeanette Nolan), la vedova di mezz’età del poliziotto che si è suicidato e che è in possesso di informazioni tramite le quali ricatta Lagana, sostiene senza battere ciglio un violento confronto con il protagonista e non viene mai meno alla sua ferrea volontà di sopravvivere al meglio con le armi che possiede. Infine, la Debbie Marsh di Gloria Grahame, che domina gran parte della seconda metà del film, è, semplicemente, uno dei personaggi femminili più formidabili mai apparsi sul grande schermo. Femme fatale sui generis, Debbie è un criogiolo vivido di contraddizioni: tanto vanesia e superficiale, quanto ingenua e pura; tanto egoista e amorale, quanto, schietta e audace (sin dalla sua prima apparizione, non fa che sfottere il suo amante, dipingendolo come lo “zerbino” del boss). Il suo background è quello della tipica ragazza proveniente da una famiglia di provincia che ha assaporato la povertà e imparato a sfruttare la sua unica dote, la bellezza, per aspirare a una vita migliore. E sarà proprio la sua bellezza a pagarne il conto. Ma Debbie è anche qualcos’altro. Nel confronto fra lei e la vedova Duncan, entrambe avvolte da una pelliccia di visone, entrambe senza scrupoli, le due donne appaiono l’una come l’immagine riflessa dell’altra. E l’agire della ragazza può essere considerato in buona misura come il disperato tentativo di distruggere l’immagine di sé che legge negli occhi duri e disillusi della donna matura, di cambiare cioè il proprio destino. Tuttavia, con metà del volto deturbato e fasciato, Debbie rappresenta anche e soprattutto il doppio di Bannion. Lei può arrivare dove lui non può o non osa. Sarà proprio lei a commettere quell’atto di violenza definitivo che porterà allo scioglimento di una situazione ingarbugliata e irrisolvibile, quel “big heat” sollevato da Bannion, il quale rimane vincolato, suo malgrado, al sigillo dell’etica professionale e umana che, nonostante tutto, non può o non vuole rompere. L’atto di Debbie è qualcosa di più che un sacrificio catartico (o un gesto d’amore verso Bannion): è un atto di autodeterminazione, che,seppur contrario a tutti i principi della società civile, ciononostante (o proprio per questo) consente a quella stessa società di ritrovare, forse, il proprio baricentro, una nuova ripartenza.

Il grande caldo dimostra che poetica langhiana vibra al massimo grado nel momento in cui fa vacillare fin quasi a disintegrare, assieme alla maschera dell’individuo, la sottile membrana di civiltà sotto cui si cela la vera natura della civiltà, una fragile sovrastruttura di regole e statuti in bilico sull’abisso nerissimo dell’animalità più istintiva e pulsionale, un patetico Super-io col ditino alzato che tenta di ammaestrare un Es caotico e vorace, preda di sé. Nasce da qui, da questa società corrotta e ambigua, la Little Italy iperrealista di Martin Scorsese con la sua “poetica della violenza”, per dirla con La Polla; e da qui prende le mosse anche l’eroe manniano (nel senso di Michael), tanto caparbiamente legato al suo codice etico, quanto sgomento e restio all’idea di rispecchiarsi nel volto del suo doppelgänger.

Info
Il grande caldo, il trailer originale.

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