La gazza ladra

La gazza ladra

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Ancora una volta nella sua Marsiglia, ancora una volta con la compagnia dei suoi attori d’elezione, Robert Guédiguian con La Pie voleuse (La gazza ladra) aggiunge un altro tassello alla sua filmografia compatta, coerente, politicamente orientata e impegnata. Se Ken Loach ha per davvero deciso di smettere, il faro del cinema “sociale” europeo può essere portato ancora per un po’ dal cineasta di origini armene. Al Roma Film Fest nella sezione Grand Public.

Viviamo tempi terribili”

Cos’è la felicità per Maria? Mangiare ostriche ascoltando Rubinstein che suona Liszt, davanti al mare di Marsiglia. Lei è l’amorevole badante di alcuni anziani, e sogna che suo nipote diventi pianista. Per pagargli le lezioni non esita a rubare soldi ai suoi assistiti, convinta di non fare nulla di male. Quando la cosa verrà a galla, le conseguenze porteranno il caos in tre famiglie. [sinossi]

Robert Guédiguian ha ormai trovato, nella piena maturità artistica, una levità di tocco non comune, la sua filmografia si rimpingua al costante ritmo di un film ogni due anni (questa volta è passato solo un anno, però, da E la festa continua!) e si fa testimone di una città, Marsiglia, che è porzione di territorio conosciuta ed esplorata in modo da narrare la Francia tutta, i suoi rivolgimenti sociali, i piccoli/grandi mutamenti che segnano l’agire di tre generazioni, dai nati negli anni Cinquanta/Sessanta fino ad oggi. La Pie voleuse (La gazza ladra), la sua ultima fatica presentata alla 19ma edizione del Roma Film Fest, vede ancora Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan, i suoi storici sodali, al centro del racconto, ma anche i comprimari Marilou Aussiloux, Grégoire Leprince-Ringuet, Lola Naymark rappresentano ormai una seconda generazione di presenze fisse, nel ruolo di figli o nipoti. Lavorando sempre con gli stessi interpreti, Guédiguian restituisce ormai l’impressione di riuscire a dirigerli ad occhi chiusi, assegnando di volta in volta il ruolo perfettamente calzante a questo o a quella. Qui Ascaride è una svampita donna di servizio dal cuore d’oro, sedotta un tempo dall’agiatezza borghese raggiunta attraverso il lavoro in una fabbrica che poi ha chiuso i battenti, convinta che la vita vada vissuta concedendosi piaceri, piccoli premi, dando seguito alla proprie passioni (tutt’altro che) effimere. È sposata con Meylan, che ha lavorato in nero per tutta la vita e ora ha una pensione da fame, dedito al gioco d’azzardo come unico mezzo per recuperare la porzione di benessere perduta. Darroussin è un vecchio professore in pensione, costretto sulla sedia a rotelle, solo nel suo grande appartamento con terrazza vista mare e in complicati rapporti col figlio, che non gli perdona di aver abbandonato la famiglia per inseguire l’amore. Bastano questi cenni per rendersi conto del leggero scarto operato dal cineasta e sceneggiatore, la variazione sul tema si concentra sull’essenza del vivere, che non può mai essere solo mera sopravvivenza ma necessita di arte, amore, cibo buono, elementi che sfamano lo spirito, importante quanto lo stomaco.

L’opera si apre con un furto, e il furto sarà il trait d’union che farà da innesco alle vicende a più livelli: una banda di rapinatori penetra nel negozio di strumenti musicali che dona il titolo al film, ma goffamente fa scoppiare un tubo idraulico ed è costretta a fuggire senza sottrarre praticamente nulla. Tutte le ricevute e i pagamenti, però, si bagnano e fanno richiesti di nuovo ai singoli clienti. Tra questi assegni c’è quello che la Maria di Ascaride sottrae mensilmente al suo assistito Darroussin, necessario per pagare il noleggio del pianoforte e le lezioni private all’adorato nipote. Il professore è benestante e non se ne accorge nemmeno, configurando quindi un esproprio proletario mai condannato in sceneggiatura, se non da chi dovrebbe usufruire di quei soldi dopo la dipartita. Ecco quindi una prima dicotomia contrapposta: esiste un furto sbagliato e un furto “giusto”, e quest’ultimo può configurarsi tale in conseguenza di quanto chi lo compie si spenda per migliorare la porzione di comunità che si trova intorno. Maria non è solo una donna di servizio, ma assiste amorevolmente persone anziane ormai sole e sperdute, tutte residenti nella zona di L’Estaque, nel passato località di villeggiatura alle porte della città ed ora inglobata nel tessuto metropolitano marsigliese. Le sue eccentriche camicie multicolore (lo studio sui costumi è particolarmente accurato) sono la plastica dimostrazione di una donna che non si rassegna alla sciatteria, alla sussistenza, alla voragine depressiva che sta inghiottendo il marito giorno dopo giorno. Mandare il nipote al conservatorio è una ragione di vita, in modo da consegnarlo ad una carriera che potrebbe portargli ogni giorno sul piatto quelle ostriche che lei si procura facendo la cresta sulla spesa qua e là; si badi bene, non si tratta di glorificazione consumistica o borghese, ma di semplice dignità, della voracità culturale che non va mai abbandonata.

Un altro dei temi che scorrono sotterranei nelle forre della narrazione de La gazza ladra fino ad esplodere con virulenza è quello della predestinazione, anche in senso genetico: citando il famoso adagio della “mela che non cade mai lontano dall’albero”, i figli commettono gli stessi errori che imputano ai padri e con gli anni si trasformano in madri e padri a loro volta, con la convinzione che anche una sola piccola micro variazione rispetto al canone possa portare i destini, personali e familiari, in territori nuovi e inesplorati. E quindi l’amore, e il tradimento verso il partner che ne può conseguire, è trattato alla stregua delle ostriche di cui sopra, tutto è ammesso tranne il possesso o l’illusione dello stesso, e la passione ormai spenta non va mai considerata, come moralismo benpensante insegna, preferibile alla nuova avventura, a qualunque età. Non abbiamo molto parlato di tecnica, di inquadrature, di scansione del montaggio, perché il linguaggio cesellato nel tempo da Guédiguian ha ormai raggiunto quella percezione di regia “invisibile” che, secondo Hitchcock e non solo, rappresenta il non plus ultra per un autore. Impegnato nella dimostrazione di una tesi nascosta nelle pieghe di un racconto incalzante che mai arresta il suo ritmo, abbandona personaggi al proprio destino fuori campo senza che questo infici troppo la realizzazione o la percezione spettatoriale, passa con disinvoltura da un evento all’altro e solo in un paio di casi la cesura appare fin troppo netta e poco armonica. Si può tornare, quindi, ogni volta al suo cinema così come si fa con Allen o Loach, aspettandosi di trovare qualcosa che sarà uguale e sempre diversa grazie a quelle variazioni di tono e ritmo che rappresentano il sale della tecnica pianistica, che qui accompagna la narrazione in campo e in colonna sonora, con partiture di Liszt, Satie e, naturalmente, Rossini. La gazza ladra ruba ciò che splende, è il suo istinto ed è una metafora perfetta. Che meraviglia il cinema militante e soave di Robert Guédiguian.

Info
La gazza ladra sul sito di Unifrance.

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