La rimpatriata

La rimpatriata

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Amarissima riflessione sull’amicizia virile e sull’Italia del boom economico anni Sessanta, La rimpatriata di Damiano Damiani ragiona con esiti lancinanti sul tempo dell’individuo e il tempo di un’intera società, restituendo i tratti individuali, sociali e universali di una radicale trasformazione geo-antropologica italiana colta in una delle sue fasi più decisive. Regia elegante, ottimo cast cosmopolita d’attori, in cui spicca forse il ruolo più bello di un’intera carriera per Walter Chiari.

Ho schifo di me, di noi

Di passaggio a Milano, il quasi quarantenne Alberto, avvocato, incontra per caso in strada il vecchio amico Sandro, cinico imprenditore edile che lo accoglie con calore. Si danno appuntamento per la sera, coinvolgendo nel ritrovo altri due amici, Livio e Nino, che a loro volta negli anni di gioventù avevano dato vita con Alberto e Sandro a un affiatato gruppo maschile, sempre in cerca di divertimento e di facili conquiste femminili. A cena i quattro si aggiornano sulle rispettive vite, mentre non sono molto convinti di ricontattare anche Cesarino, il più sfortunato (e anche invidiato) del gruppo. Successivamente, però, i quattro decidono di raggiungere Cesarino al cinema dove lavora, contando di sfruttare la grande capacità dell’amico nel procurarsi donne per il piacere di una serata. Cesarino è commosso di rivedere tutti gli amici di un tempo e si unisce a loro. Tuttavia la nottata passerà rivelando a poco a poco la vera natura di un rapporto d’amicizia ormai appassito e incattivito dai mutamenti della vita… [sinossi]

Il boom economico è stato un’illusione, così come lo è l’amicizia eterna a cui si crede da giovani. Sono entrambe illusioni di gioventù, a ben vedere. L’Italia del dopoguerra è un paese di freschi natali, che vede la luce sull’onda entusiastica della ricostruzione postbellica e della democrazia repubblicana. È un Paese dal viso giovane, fin dal sorriso di Anna Iberti che sfonda la prima pagina del Corriere della Sera annunciando la vittoria della Repubblica al referendum del 2 giugno 1946. Nell’arco di un quindicennio l’Italia assiste a una strabiliante crescita economica, che cambia letteralmente volto architettonico e geo-antropologico all’intero paese. La trasformazione da paese agricolo a industriale è rapida e feroce. Prodotto dalla gloriosa 22 dicembre di Ermanno Olmi e Tullio Kezich, realtà purtroppo di vita breve, La rimpatriata (Damiano Damiani, 1963) si apre esattamente su questa suggestione. L’Alberto che ritorna a Milano dopo qualche anno si aggira sui titoli di testa in mezzo a enormi palazzi in costruzione. «Lì una volta c’era la mia scuola» dice malinconicamente. Si è cambiati anche dentro, ed è un cambiamento insieme individuale e sociale. Il mutare dell’età comporta inevitabili mutamenti esistenziali, ma c’è anche qualcos’altro, intimamente legato alle trasformazioni antropologiche in corso. Con finissima nota, Alberto vede da lontano un caro amico di un tempo, e sul momento finge di non vederlo. È già subentrato un senso di estraneità in luogo della spontanea complicità che anni prima li teneva uniti. Crescere dà vita a inediti imbarazzi. Nonostante l’iniziale tentativo di sottrarsi all’incontro, Alberto e Sandro poi si salutano e convocano altri amici storici per passare una serata insieme come ai vecchi tempi. Si ricostituisce un quartetto di maschi più o meno affermati, che sul momento non hanno intenzione di coinvolgere un quinto componente del gruppo dal destino decisamente diverso. È Cesarino, tanto entusiasta e vincente con le donne quanto immaturo e trasognato, protagonista di una vita privata quanto mai aggrovigliata. Fra una chiacchiera maschilista e l’altra sempre intorno a donne e sesso, alla fine i quattro decidono di ritrovare anche Cesarino per vedere se riesce ancora a procurare loro facili conquiste femminili. Nella lunga notte che li vede protagonisti emerge un’apparente solidità di rapporti che in realtà non nasconde neanche troppo una reciproca indifferenza. Trascorrere un’intera nottata a rievocare le gesta del passato in mezzo alle risate è abbastanza facile. Ma la sorprendente generosità di Cesarino, che sembra mettere al primo posto la felicità altrui, non è più commovente come una volta. Adesso è accolta dagli altri amici con uno sguardo cinico e pietistico, e al fondo si agita una malcelata invidia di indecifrabile natura.

Un po’ si vergognano di Cesarino, tutti. L’età adulta ha portato con sé un elemento nuovo. L’ipocrisia, che regna sovrana. Confortati dalle comode certezze di un’agiata vita borghese, i quattro amici affermati in società si guardano bene di compromettere la propria reputazione tramite la figura di Cesarino. Lo sfruttano e lo cercano finché fa comodo, ma nessuno è disposto a esporsi per lui ricambiandone in qualche modo la generosità. E sono pure altre le note di autoconservazione che emergono con insistenza lungo la notte di graduale svelamento. Livio, medico tutto d’un pezzo, si rifiuta di condividere le proprie prestigiose conoscenze con Sandro, affarista arraffone sempre in giro per tribunali. Finché si tratta di ridere e darsi ai bagordi, l’amicizia regge. Non c’è invece alcuna traccia di veri legami che possano intrecciare in profondità i destini di più persone. Nessuno è disposto a rischiare per qualcun altro le proprie posizioni di vantaggio individuale. Così, un’offerta di lavoro che potrebbe aiutare Cesarino viene proposta e ritirata nell’arco di qualche ora. Così, la composita famiglia di Cesarino (due compagne per nulla gelose una dell’altra, una figlia, un figlio di un’altra donna non meglio identificata, una cognata con qualche problema cognitivo, un anziano sconosciuto accolto in casa) è guardata dagli amici con un misto di sorpresa e di ingiustificata compassione. Così, soprattutto, quando in prefinale Cesarino finisce vittima di un’aggressione da parte di alcuni camionisti, il gruppo degli amici assiste immobile al pestaggio – e Sandro si darebbe volentieri alla fuga per evitare di essere coinvolto in una faccenda che probabilmente andrà in mano a polizia e carabinieri. In tale contesto di amicizia virile, vi è pure un nutrito gruppo di figure femminili convocate a fare compagnia al quintetto protagonista. Alcune sono gustose caricature; un’altra, Carla, è una giovane testimone della nottata che mostra più di un accento antonioniano. Mutevole, imprendibile, umorale, ineffabile, è però nel finale anche la portatrice di uno sguardo lucido e perspicace. «Per un momento vi ha fatto piacere mentre lo picchiavano». Il pestaggio di Cesarino, secondo Carla, ha dato qualche inconfessabile soddisfazione agli altri amici. L’amicizia virile ha un retroscena di sadismo, invidia, competizione, e alla fine pure di ostilità. Alla resa dei conti gli altri considerano Cesarino un poveraccio, e il loro sottaciuto senso di superiorità, dovuto anche al successo professionale e all’acquisito prestigio sociale, emerge nel piacere sadico di vederlo pestare da altri. L’umiliazione del più debole è un piacere perverso che attiene con esattezza ai nuovi panorami antropologici emergenti in Italia. È un piacere istintivo e pulsionale, ma è ben alimentato da una nuova società in cui il divoramento dell’altro è diventato una parola d’ordine totalizzante. Così, al cinismo finiscono per accompagnarsi la protervia e la crudeltà.

Nuovi schiaccianti modelli sociali, del resto, sono testimoniati a sprazzi anche nei personaggi di contorno. Basti pensare allo splendido assolo di Gastone Moschin nei panni del Toro, un operaio di fonderia ubriaco che rivendica fra le lacrime il proprio diritto a cantare in inglese nelle sue serate di libera uscita. Cantare in inglese: sparute soddisfazioni e miseri spazi di libertà per chi è schiacciato dal sistema economico e produttivo. Il profilo di Cesarino, invece, conserva ampi margini di ambiguità. La sua generosità, infatti, è al tempo stesso schietta e autoparodica. Spesso, nella sua enfasi e ostentazione continua, Cesarino sembra in realtà guardarsi dall’esterno interpretando scientemente un personaggio. Finirà infatti per recitare se stesso davanti a uno specchio, quando con atto di provocazione sbatte in faccia a Sandro la reale consistenza morale della falsa testimonianza in tribunale che gli ha proposto in cambio di denaro – e Sandro, rompendo per la prima volta il teatrino dell’amicizia sostenuto un po’ da tutti fino a quel momento, richiama Cesarino all’ordine con un acido «Balordo!». Non è incolpevole, Cesarino. Ha mandato in rovina il Larone, ha mentito spudoratamente a diverse donne per uscire da situazioni diventate rapidamente sgradite, vive di espedienti e di leggerezze. Ma viene anche da perdonargli tutto, tanto è l’amore per la vita che ancora conserva in sé, a differenza dei quattro amici che lo circondano, inaciditi dall’egoismo adulto. L’involuzione a cui vanno incontro i protagonisti di La rimpatriata è al contempo individuale e sociale. Da un lato Damiani e i suoi sceneggiatori evocano una fenomenologia dei rapporti umani che attiene quasi all’assolutezza (il tempo cambia i rapporti; la gioventù si conclude, e i conseguenti cambiamenti di vita allontanano e indeboliscono legami un tempo ritenuti indistruttibili); dall’altro la nuova Italia favorisce il manifestarsi di dinamiche di questo genere. «Peccato. Non ci siamo detti niente»: in una sorta di mesta e inesorabile alienazione legata all’età e al mondo che cambia, il quintetto si congeda consapevole di non aver più molto da condividere, e soprattutto di aver preferito per un’intera nottata la superficialità alle preziose risorse di un vero rapporto. La consapevolezza è schiacciante – «Ho schifo di me, di noi», suggella Livio in lacrime. Promettersi di rivedersi è sempre facile. Altrettanto facile è intuire amaramente che non succederà più.

È d’altra parte magnifica, nei suoi accenti di alienazione, la Milano evocata da Damiani. Quasi completamente notturna, fumosa, umida, incorniciata da due capitoli (incipit e finale) alla luce del giorno nelle tenui nebbie che tutto avvolgono e rendono impalpabile. Sterrati dove emergono gigantesche impalcature. Una città che cresce e che cambia. Intanto però «Qua costruiscono, costruiscono, ma il miracolo economico è finito: ce ne accorgeremo», chiosa il palazzinaro Sandro guardandosi intorno. In colonna sonora ritorna più volte il Sergio Endrigo di La rosa bianca. Calza a pennello anche l’incipit endrighiano di Canzone per te, di qualche anno dopo. «La festa appena cominciata è già finita». I mastodontici cantieri sembrano preannunciare una lunga festa, un’Italia di magnifiche sorti e progressive colta appena ai suoi inizi. È invece tutto già finito. La crescita del paese ha già visto la sconfitta dell’essenza intima dei singoli. L’uomo è una belva assetata di sangue. Sparisce un intero mondo. Si invecchia. Il corpo già accusa più di un colpo – l’orecchio di Sandro. E guai a sentirsi definire «giovanile». Giovanile è da vecchi.

Info
La rimpatriata sul sito di Pesaro.

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