Gli invisibili

Gli invisibili

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Un antieroe eroe perdente in una realtà incomprensibile e aliena: Gli invisibili sembra un film della New Hollywood e Oren Moverman è un raffinato manierista. Al Festival di Roma 2014 e ora in sala.

George è un uomo solo e disperato, che ha perso tutto: una casa, un lavoro, gli affetti. Vive come un senzatetto da anni e vaga per le strade di New York senza avere un posto dove andare. Raccoglie il cibo dall’immondizia, chiede l’elemosina, con i pochi spiccioli raccolti si compra da bere. Talvolta riesce a trovare posto nei ricoveri pubblici per i barboni. E proprio in uno di questi stringe amicizia con Dixon, un ex musicista jazz. Questo rapporto umano sembra dargli la speranza per tentare di riallacciare il rapporto con la figlia… [sinossi]

Se si prende in considerazione quel che arriva nelle nostre sale, il cinema americano sembra orientarsi su roboanti franchise adolescenziali, su quelli fumettistici, qualche cartoon natalizio, sparute sortite nell’action e nel poliziesco (sempre più appannaggio delle serie tv) e su un numero ridotto di prodotti “alti”, firmati da autori blasonati (Eastwood, Scorsese, Spielberg, Nolan, Fincher etc.), mentre l’indie in stile Sundance è momentaneamente assente dai listini delle distribuzioni italiane. All’interno di un siffatto panorama, il cinema di Oren Moverman costituisce un’anomalia: è un regista che non si è ancora guadagnato l’appellativo di “autore” con la maiuscola, ma nella sua breve filmografia gli ingredienti per raggiungere questo scopo ci sono già tutti, dal momento che li ha scelti e amalgamati con cura e passione, al di fuori delle logiche di mercato, seguendo nient’altro che il proprio gusto personale. Lo sceneggiatore di Io non sono qui di Todd Haynes, ha infatti esordito alla regia con Oltre le regole – The Messenger co-firmandone lo script insieme al talentuoso Alessandro Camon (nomination all’Oscar e Orso d’Argento a Berlino, proprio per questo film), e anche la sua opera seconda, Rampart, tristemente rimasta inedita da noi, vanta un partner d’eccellenza alla sceneggiatura: lo scrittore James Ellroy.

Per il suo terzo film, Time out of Mind (che esce ora in sala con il titolo di Gli invisibili) Moverman ha invece firmato in solitaria la sceneggiatura, componendo una sorta di partitura jazzistica newyorkese che affida tutto il suo ritmo alle immagini, al suo attore, al suono realistico e assordante della città. Presentato in concorso nella sezione Cinema d’Oggi al Festival di Roma 2014, Gli invisibili è la storia di un senzatetto che vive di espedienti nella feroce realtà quotidiana della Grande Mela. Nel panni del protagonista, oltre che in quelli di produttore della pellicola, troviamo Richard Gere, qui in grado di mettersi in discussione approcciando un ruolo complesso con la sobrietà che da sempre (exploit canori a parte) contraddistingue la sua carriera e che gli consente di essere distante anni luce da quelle performance eccessive e sopra le righe che accompagnano di solito ruoli come questo (pensiamo al Jamie Foxx di Il solista).
Con i suoi occhi stretti e l’espressione attonita di chi non riesce più a leggere la realtà in cui si trova, Gere/George (questo il nome del personaggio), subisce le angherie di giovani teppisti, rovista nella spazzatura, chiede l’elemosina, acquista alcolici e chiede asilo negli ospedali e nei rifugi di accoglienza, dove spesso l’unica occasione di dialogo con qualcuno avviene attraverso il linguaggio e le regole artefatte della burocrazia. Se la temperatura esterna non è al di sotto degli zero gradi centigradi, la legge americana dice che un senzatetto può infatti restare all’aria aperta, mentre se questi vuole proprio avere accesso a un letto pubblico, è necessario che presenti un documento d’identità, cosa che il nostro George non ha da tempo.

La questione dell’identità è centrale infatti in Gli invisibili, ma la forma che Moverman propone per riacquisirla è un percorso squisitamente umanista, di confronto e comunicazione con l’altro. L’amicizia con Dixon, logorroico compagno di strada che si professa pianista jazz, conosciuto in un ricovero per senzatetto, scardina infatti le dinamiche della quotidianità di George, provocando in lui una graduale apertura verso l’esterno. La stessa funzione la assume poi l’incontro con una donna che come lui vive in strada. Si tratta forse della sequenza più riuscita e toccante del film, che vede Gere duettare con una sorprendente e irriconoscibile Kyra Sedgwick. I due personaggi si incontrano, conversano e poi consumano un fugace rapporto sessuale, in seguito al quale, come ben suggerisce la regia di Moverman, l’uomo si risveglia al mattino quasi rinato a nuova vita, e si avvia verso il compito per lui più difficile: ricostruire un rapporto con la figlia (Jena Malone), abbandonata quando era ancora dodicenne. Un nuovo amico, una donna e la figlia, costituiscono dunque per il personaggio una trinità indispensabile per ricostruire la propria identità, al di là dei documenti richiesti.

Immersivo e rarefatto, il film di Moverman appartiene a un cinema che non si fa più da tempo, quello dell’epoca dorata della New Hollywood, coi suoi personaggi borderline, solitari e nichilisti, con la narrazione lasca, messa da parte per lasciare spazio all’immagine e ai corpi degli attori. Pedinato nei suoi percorsi urbani e continuamente incastonato dietro qualche vetrina resa opaca dallo sporco, Gere regala un’interpretazione forte e convincente e anche se la regia di Moverman appare a tratti un po’ ripetitiva, il suo manierismo, chiaro omaggio al tipo di cinema che lui ama, è impeccabile, dolente e appassionato. Nelle sue immagini, mirabilmente fotografate da Bobby Bukowsky, rivivono i personaggi e la New York di pellicole come Rapsodia per un killer di James Toback, Un uomo da marciapiede di Schlesinger, Taxi Driver di Scorsese, Panico a Needle Park di Schatzberg, ma anche – nonostante l’ambientazione fosse differente – di Città amara di Huston, dove, come avviene qui, il protagonista maschile Stacy Keach trovava conforto nell’amicizia con una donna (Susan Tyrrel), come lui sola e disperata.

Resta da chiedersi quale possa essere l’accoglienza, al di là della visione festivaliera, per un film come questo, ora che esce in sala. Gli invisibili infatti rischia di essere poco compreso e apprezzato sia da chi vi si accosti per cercare il melodramma più commovente o il film di denuncia sui senzatetto, sia da chi pensa di trovarvi una di quelle interpretazioni “da Oscar” – inteso nel senso più deteriore e di maniera – che Gere si guarda bene dall’offrirci. Toni dimessi, realismo, suono sporco e assordante e un’elaborazione stilistica rigorosa sono gli stilemi prescelti da Oren Moverman per raccontare questa storia, con un rigore forse un po’ manicheo, ma sincero, e la ferma volontà di recuperare gli stilemi di un cinema del passato che lui ama. Perché prima di essere “autore” è un cinefilo puro, che non ricerca il plauso di nessuno (né pubblico, né critica) ma prosegue instancabile la sua personalissima ricerca.

Info
Il trailer di Gli invisibili su Youtube.
Il sito del Festival del Film di Roma.
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