Questione di punti di vista

Questione di punti di vista

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In concorso alla 66a Mostra di Venezia, Questione di punti di vista gode di una scrittura leggera ed estremamente fluida (caratteristica, questa, propria di tutta l’esperienza artistica rivettiana) affidata anche al fido Pascal Bonitzer – collaboratore di Rivette dai tempi de L’Amour par terre, anno domini 1984 – e di un cast di primissimo livello, in cui spiccano le interpretazioni di André Marcon e Sergio Castellitto.

Il circo

Il proprietario di un circo muore improvvisamente e i suoi dipendenti decidono di contattare la figlia, Kate, che non vedono da quindici anni. La donna decide di continuare il lavoro del padre insieme a Vittorio, un italiano conosciuto casualmente… [sinossi]

Un’ora e ventiquattro minuti, questa la durata di Questione di punti di vista (36 vues du Pic Saint Loup), ultimo parto creativo di Jacques Rivette, tra i grandi maestri del cinema d’oltralpe quello rimasto probabilmente più oscuro al pubblico italiano. Potrà apparire bizzarro aprire la disamina critica di un’opera cinematografica con un riferimento al minutaggio sul quale si sviluppa, ma mai come in questo caso ci sembra che l’annotazione risulti perfettamente calzante.

Nel corso della sua lunga carriera, iniziata esattamente sessant’anni fa con il cortometraggio Aux quatre coins, Rivette ci ha abituato a un utilizzo assai personale del tempo: le sue messe in scena non si sono mai sentite costrette a sottomettersi alle regole ferree dell’industria, preferendo un percorso senza dubbio irto di ostacoli ma ben più personale. Anche senza volersi riferire agli episodi più estremi della sua filmografia (le tredici ore di Out 1: Noli me tangere, le sei o poco meno di Jeanne la Pucelle) è impossibile non riconoscere nel tracciato percorso dal cineasta transalpino una verve affabulatoria preponderante, dove la vera e propria dispersione del tempo acquista un senso finanche teorico; nell’annullamento delle regole tempistiche del cinema classico si nasconde un nuovo approccio alla materia cinematografica, rivoltata dal suo interno senza che si abbia mai l’impressione di un’operazione programmatica. Ed è interpretando il cinema di Rivette come uno degli esempi più limpidi di sincerità autoriale [1], palesamento di una necessità della messa in scena che esula da qualsivoglia retaggio di artificio intellettuale, che troviamo indispensabile – se non propriamente giusto – muoverci controcorrente rispetto al pensiero dominante che ha accompagnato la proiezione di Questione di punti di vista, presentato in concorso alla 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Molte sono state infatti le voci che hanno parlato di un Rivette minore, immerso in una sorta di pausa riflessiva rispetto ai vari capolavori sfornati nel corso degli anni. Non che un’affermazione del genere risulti, a conti fatti, del tutto falsa: neanche noi ce la sentiremmo di innalzare l’ultima fatica artistica di Rivette al livello dei suoi lavori più riusciti, e ammettiamo di non aver provato durante e dopo la visione di Questione di punti di vista la sensazione di glorioso stordimento che aveva accompagnato, per rimanere negli ultimissimi anni, l’incontro con Va savoir, Storia di Marie e Julien e La duchessa di Langeais. Siamo però perfettamente convinti che questo non sia un difetto da attribuire alla pellicola di Rivette, ma semmai alla comoda sensazione di abitudine che abita spesso e volentieri gli animi del pubblico.

Questione di punti di vista è un’opera breve non perché Rivette abbia improvvisamente smarrito per strada la propria ispirazione, ma semplicemente perché l’ora e ventiquattro minuti su cui vi abbiamo già reso edotti è la durata giusta per un film di questo tipo: cadere nell’errore di vedervi all’interno una semplificazione del discorso corrisponde a non aver mai realmente compreso il senso che la messa in scena acquista in mano al regista francese. Ciò detto, quello che probabilmente manca qui rispetto ad altre opere che l’hanno preceduto, è la profondità emotiva e umana di quanto ci viene descritto: la lettura del circo come metafora della vita non è, ammettiamolo, di primo pelo, e finisce per risultare vagamente posticcia  rispetto a una scrittura dei personaggi che, al contrario, appare come al solito miracolosa. Molto interessante, invece, lo spezzettamento narrativo operato da Rivette: tutte le informazioni che devono raggiungere il pubblico vengono centellinate attraverso un abile gioco di reiterazione e accumulo. È così per quel che concerne il gag clownesco dei piatti rotti – suddiviso in quattro segmenti che ne delineano di fatto la creazione: si parte dalla scrittura base e si arriva alla totale improvvisazione dell’ultima performance – ma anche per lo svelamento del trauma di cui è stata vittima Kate e che è il basamento su cui si regge l’intera pellicola. Per il resto, Questione di punti di vista gode di una scrittura leggera ed estremamente fluida (caratteristica, questa, propria di tutta l’esperienza artistica rivettiana) affidata anche al fido Pascal Bonitzer – collaboratore di Rivette dai tempi de L’Amour par terre, anno domini 1984 – e di un cast di primissimo livello, in cui spiccano le interpretazioni di André Marcon e Sergio Castellitto. Per questo, a fronte di una pletora di pessimisti che interpreteranno questo film come un’opera minore di un grande regista oramai destinato al pensionamento, noi ci limitiamo a definirlo un sano, onesto e decisamente riuscito divertissement. Se vi par poco…

Note
1. Per una comprensione ancor più profonda di quanto affermato, consigliamo caldamente di recuperare le opere dirette tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80: in particolare Céline et Julie vont en bateau, Noroît, Duelle e Merry-Go-Round.
Info
Il trailer italiano di Questione di punti di vista.
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