Il cliente

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Dopo Le passé, Asghar Farhadi torna a parlare dell’Iran, di censura e di pubbliche virtù, stratificando ulteriormente il suo discorso con il teatro e realizzando così un nuovo straordinario tassello della sua filmografia: Il cliente, in concorso a Cannes 2016.

Vizi privati e pubblici teatri

Costretti a lasciare il loro appartamento al centro di Teheran, visto che l’immobile in cui abitano rischia di crollare, Emad e Rana traslocano in un nuovo alloggio. Un incidente con il precedente affittuario va a stravolgere i loro rapporti di coppia… [sinossi]

Di fronte a film come Il cliente (Forushande), in concorso a Cannes 2016, si entra quasi in una dimensione cinematografica altra, quella che nel cinema contemporaneo appartiene probabilmente solo ad Asghar Farhadi, tornato con questo suo film a girare in Iran, dopo la parentesi francese di Le passé. Una dimensione fatta di una complessa stratificazione del discorso, di una scrittura corposa, di un cinema di denuncia che non si svilisce mai nel film a tesi, di una attenzione miracolosa per ogni personaggio, fosse anche il più secondario. Il cliente è allo stesso tempo un teorema infallibile e un film che, pur non lasciandosi andare all’istintività nell’uso della macchina-cinema, riesce a risultare straziante e commovente.
Se dunque in Le passé Farhadi aveva abbandonato, per via delle contingenze produttive, il contesto sociale iraniano per dedicarsi a un film di pura narrazione, dove tra l’altro si arrivava a vertici tali di perfezione geometrica da far pensare a una sorta di saggio sul raccontare, in Il cliente recupera la dimensione della polemica morale verso il suo paese e verso i suoi personaggi – che era caratteristica dei titoli che gli hanno dato il successo internazionale, About Elly e Una separazione – ma riesce a stratificarla ulteriormente inserendo la chiave di lettura del teatro.

Al centro del film vi è una coppia di giovani rappresentanti della classe media di Teheran, Emad e Rana, due attori che stanno portando in scena Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Costretti a traslocare, si troveranno in un nuovo appartamento che li porterà a conoscere un vero ‘commesso viaggiatore’, un povero vecchio – disgraziato e anche un po’ meschino – su cui progressivamente i due finiranno per acquisire il controllo del suo destino, come sorta di burattinai.
Il gioco di specchi che Farhadi istituisce tra il teatro e la vita dei suoi personaggi è dunque decisamente personale e tutt’altro che fine a se stesso: i due piani del discorso si alimentano in maniera vicendevole, fino ad arrivare al confronto tra i due palcoscenici, quello pubblico di una rappresentazione classica, e quello privato, che si svolge nell’appartamento disabitato, di un dramma senza via di scampo, sadico e crudelissimo. Morte di un commesso viaggiatore serve perciò a creare allo stesso tempo uno schermo tra i protagonisti e la vita ‘reale’, ma serve a Farhadi anche per mettere in discussione se stesso e il meccanismo di rappresentazione artistico/culturale: non più dunque il ‘salesman’ al centro della scena, quanto un suo simulacro, una sua deformazione, perché il vero ‘salesman’ e la sua famiglia proletaria, brutta e sciancata, sono troppo ‘reali’, urlano negli androni, muoiono in strada e non conoscono la gestione dell’ipocrisia tipicamente borghese che è invece il pane quotidiano dei nostri due attori.

E, ritornando nel contesto del suo paese, Farhadi fa anche di più, perché ci parla del ruolo nell’intellettuale in una società come quella dell’Iran contemporaneo. I teatranti di Il cliente, infatti, si compromettono con il potere e con la sua arma più subdola, la censura: accettano di far apparire in scena una donna vestita mentre nel dialogo dice di essere nuda, e non si negano alla richiesta di un ulteriore incontro con i rappresentanti dello stato per eliminare dei passaggi del testo ritenuti ‘scomodi’. Compromettersi a livello artistico è del resto un atto che degrada e digrada anche nella vita privata. E infatti Amed, sia pure in maniera solo apparentemente scollegata rispetto alla sua compromissione, comincerà a cambiare natura, a temere ad esempio a proposito della moralità di sua moglie, a nascondere i suoi movimenti alla legge per farsi lui stesso legge e potere.

“Come si fa a essere realistici pur non parlando di cose reali?”, chiede ad un certo punto un allievo nella scuola in cui insegna Amed. “Attraverso dei cambiamenti progressivi”, risponde lui, “cambiamenti che possono rendere credibile anche la trasformazione più assurda, quella dell’uomo in una mucca ad esempio”. Ed è proprio su questo che ragiona Il cliente, nel mettere in scena un orribile cambiamento di stato morale, quello di un artista in potenziale dittatore.
Opera dunque insieme meta-riflessiva e di denuncia, Il cliente riesce miracolosamente a parlarci sia della possibile ambiguità di chi ha il compito di mettere in scena un mondo, sia di quello stesso mondo, di una società come quella iraniana in rapido mutamento dove non vi è più spazio per i ‘salesman’, per chi prova a vivere alla giornata, per le incarnazioni del neorealismo italiano e iraniano. E in un accesso di odio di classe, Amed guarda con disprezzo i miseri palazzi che ha di fronte e impreca: “Bisognerebbe buttare giù tutto e ricostruire”. “L’hanno già fatto e guarda cosa ne è venuto fuori”, gli risponde saggiamente un amico. Ecco, siamo sempre al discorso dello sviluppo senza progresso, dei paraventi e degli ostacoli che una società avanzata ci mette davanti agli occhi per nascondere il suo potere e il suo falso benessere. Farhadi ha trovato il modo per raccontare tutto ciò e questa sua condizione lo pone in una rosa ristrettissima di cineasti contemporanei, tra cui va annoverato senz’altro anche Jia Zhangke, capaci di raccontare il presente e le sue mistificanti contraddizioni.

Info
La scheda di Il cliente sul sito del Festival di Cannes.
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