La legge del Signore

La legge del Signore

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Oramai dimenticato, come buona parte della filmografia di William Wyler, La legge del Signore è un film di rara potenza, ancora attuale nella sua problematizzazione della questione “pacifista”.

Quinto: Non uccidere

Nel sud dell’Indiana, ai tempi della Guerra di Secessione, la famiglia Birdwell conduce una vita serena: il padre Giona è un mite agricoltore; sua moglie Eliza è rigidamente attaccata ai precetti della religione quacchera; il figlio maggiore Giosuè è diviso tra i princìpi della sua religione e il desiderio di difendere la propria famiglia dal pericolo incombente; la figlia Martha è un’adolescente romantica e sognatrice; e il figlio minore Azaria è una piccola peste in perenne conflitto con Samantha, l’oca prediletta di sua madre. Durante una funzione religiosa, un ufficiale dell’Unione entra in chiesa e cerca di convincere gli uomini della comunità quacchera a combattere per difendere le proprie fattorie dall’esercito confederato che si fa sempre più vicino. Ma essi rifiutano. Quando numerose fattorie dei dintorni vengono attaccate e distrutte dall’esercito confederato, Giosuè decide, contro il parere dei genitori e in particolare della madre, di accettare l’invito ad arruolarsi… [sinossi]

Nel 2016 La legge del Signore, come i vari Strada sbarrata, Figlia del vento, Ombre malesi e Piccole volpi, sta lì a testimoniare una triste realtà: William Wyler è un regista oramai completamente dimenticato dal mondo critico e cinefilo. I motivi di questa perdita della memoria e dell’attuale disattenzione verso il cinema di Wyler sono molteplici, ma possono essere facilmente sintetizzati riprendendo le parole di André Bazin che lo definì “il giansenista della messa in scena”; in un’epoca in cui il cinema spingeva verso il moderno, sorpassando l’ideale classico senza troppi indugi o ripensamenti, Wyler rimaneva inesorabilmente indietro, ancorato a un mondo in via di sparizione. Non è certo un caso che tra gli ultimi film della sua quarantennale carriera i titoli più noti siano Vacanze romane (1953) e Ben-Hur (1959), due film che si escludono con forza dallo spazio-tempo, si svincolano dall’oggi e dal reale per perdersi in una rilettura del mito e della fiaba. In qualche senso non troppo dissimile può apparire La legge del Signore (noto ai tempi anche con il titolo L’uomo senza fucile, tradendo una volta di più l’originale Friendly Persuasion), che deve essere tra l’altro annoverato tra le palme d’oro più contestate di tutti i tempi. Il riconoscimento gli fu assegnato dalla giuria presieduta da André Maurois, l’inventore della biografia romanzata, che comprendeva tra gli altri Michael Powell, Marcel Pagnol, Dolores del Río e George Stevens, e venne accolto da selve di fischi: l’idea del premio a un film come La legge del Signore, che ribadiva con fierezza il ritmo e la retorica di un cinema classico, di un western privo delle ombreggiature che già si vedevano all’orizzonte (il tardo John Ford, Budd Boetticher, L’amante indiana di Delmer Daves e Il cavaliere della valle solitaria di Stevens, oltre alla smitizzazione operata da Fritz Lang), era rigettata dalla maggior parte della critica e degli addetti ai lavori, soprattutto a fronte di un concorso sulla Croisette che proponeva Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson, Le notti di Cabiria di Federico Fellini, Valley of Peace di France Štiglic e I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda. La legge del Signore subì dunque la stessa sorte del suo regista, venne considerato reazionario e vecchio e abbandonato al suo destino, relegato in un angolo della memoria critica. Troppo popolare l’afflato di questo film, che venne letto persino come ambiguo nella rappresentazione del microcosmo quacchero, secondo taluni “falso” nei suoi propositi pacifisti.

A distanza di sessant’anni è arrivato dunque il momento di proporre una nuova lettura de La legge del Signore, non solo per rilanciarlo agli occhi delle nuove generazioni critiche, ma anche per tentare di ricomporre quello scisma tra classico e moderno, come stanno facendo alcuni dei maggiori cineasti contemporanei. Spesso finendo per essere incompresi, purtroppo. Come leggere infatti l’ultimo fiammeggiante film di Zemeckis, Allied, in uscita all’inizio dei gennaio nelle sale italiane? O, ancor più, come interpretare tutta la filmografia recente di Steven Spielberg? Non è un caso che uno dei titoli meno capiti di Spielberg, War Horse, guardi con insistenza dalle parti di Wyler e de La legge del Signore: in entrambi i casi l’ossessione di un protagonista passa anche per il proprio rapporto con i cavalli – anche se in Friendly Persuasion questo è assai meno ‘familiare’ –, in entrambi i casi la guerra è vista come un orrore a cui l’uomo non può sfuggire, e dal quale è impossibile nascondersi, in entrambi i casi (infine) il tentativo di calmare le acque tragiche è affidato alle scorribande quasi comiche di un’oca assai poco timida.
Quella che all’epoca venne scambiata per confusione ideologica ne La legge del Signore, vale a dire la scelta di far rompere al proprio protagonista, il capofamiglia Giona (un monumentale Gary Cooper, da molti accusato per aver “collaborato” con il Maccartismo – anche se in realtà con mossa non poco avveduta l’attore sul banco dei testimoni era stato colto da totale amnesia, riuscendo a evitare di fare i nomi dei compagni), l’incrollabile fede quacchera per andare a cercare il figlio rimasto ferito in trincea, e affrontare la traversata con tanto di fucile sottobraccio, rappresenta in realtà uno dei punti di forza maggiori del film, in grado di slegare l’immobilismo del “classico” proponendo una figura umana rosa dal dubbio, e tradita da qualcosa che va oltre persino il rapporto con la divinità, vale a dire gli affetti familiari. Un uomo, a scanso di equivoci, che in ogni caso non spara un solo colpo di fucile in tutto il film…

È semmai il ruolo affidato a Dorothy McGuire, la moglie Eliza (vera maestra del culto e della dottrina quacchera), ad apparire troppo monolotico, quasi inscalfibile: da un punto di vista narrativo questo escamotage diventa però cruciale per sollevare la vera dialettica interna al film. Non l’agone tra guerra e pace, verso il quale è fin troppo facile e ovvio operare una scelta netta (e lo stesso Giona, quando uno dei fratelli di fede gli propone di prendere il fucile per andare il combattere il “nemico”, si oppone con forza alla sola idea, al punto di essere accusato di vigliaccheria), ma quello tra fede cieca e logica umanista. Qui La legge del Signore propone al contrario una modernità sotterranea, poco visibile a occhi superficiali ma persistente, e che permette al film di superare il proprio tempo per mostrare ancora oggi un’urgenza espressiva che all’epoca non gli venne riconosciuta.
La legge del Signore è, oltre a questo, un viaggio inusuale nell’epopea western, che guarda la Guerra di Secessione con occhi distratti per concentrare l’attenzione su un microcosmo pacifico e ideale che, proprio per la sua natura ideale non può che costringersi a una vita sociale con il resto del mondo, magari più impuro ma altrettanto degno di esistere, e di sopravvivere alle angherie del tempo e dell’uomo. Wyler fonda uno sguardo epico – la lunga battaglia sulle sponde del fiume, in qualche modo riecheggiata da Sergio Leone ne Il buono, il brutto, il cattivo solo un decennio più tardi, quando però tutto era cambiato nel mondo del cinema – al gusto per il dettaglio, per la sfumatura, per la commedia umana. In questo senso il film nel film rappresentato dal viaggio di Giona con il figlio maggiore Giosuè (Anthony Perkins in epoca pre-Norman Bates, ma già turbolento da un punto di vista emotivo) è un diversivo idilliaco e ai limiti del farsesco, che rimane incollato agli occhi come il battibecco infinito tra il piccolo Azaria e la già citata oca Samantha. È giunto il momento di riabilitare un’opera come La legge del Signore, tra gli ultimi singulti di una Hollywood destinata di lì a poco a morire. Per rinascere, come l’araba fenice, dalle proprie gloriose ceneri.

Info
Il trailer originale de La legge del Signore.
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