$9.99

Lungometraggio d’esordio di Tatia Rosenthal, $9.99 è un notevole esempio di stop-motion, pratica cinematografica che ha avuto maestri in ogni latitudine e che ha con sé il fascino indiscreto del materico, l’illusione dell’impossibile-tangibile. Presentato nella sezione Extra – L’Altro cinema del Festival del Film di Roma 2008.

A volo d’angelo

Nonostante la cocciuta noncuranza con cui viene trattata solitamente dalla critica italiana, è indiscutibile che l’animazione stia vivendo un periodo estremamente fecondo da un punto di vista artistico e produttivo. Paesi che finora si segnalavano come non pervenuti nello scacchiere mondiale del cinema d’animazione hanno iniziato ad affiancarsi ai monoliti che da sempre caratterizzano il mercato dei cartoon. Ma non solo, sembra che finalmente si stia iniziando a scacciar via dalla mente l’assurda associazione d’idee che vorrebbe utilizzare come sinonimi i termini animazione e infanzia; a svolgere una funzione non indifferente, sotto questo punto di vista, sono stati (per rimanere nel campo degli ultimissimi anni) film come Persepolis di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, lo splendido Waltz with Bashir di Ari Folman – al quale avremmo assegnato la Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes, magari ex-aequo con Un conte de Noël di Arnaud Desplechin -, il Satoshi Kon del thriller onirico Paprika, nonché il Mamoru Oshii di The Sky Crawlers, largamente incompreso a Venezia, e i primi quaranta minuti di WALL-E di Andrew Stanton, in cui la narrazione e l’uso dei silenzi e dei tempi morti si fa decisamente adulta.

Paradossalmente, in questa improvvisa inversione di tendenza in cui l’animazione passa, da intrattenimento a uso e consumo dei più piccoli, a stratificata e profonda riflessione sull’umanità in grado di sfruttare la mancanza delle leggi della gravità che condizionano gli esseri in carne e ossa, si inizia ad avvertire una pericolosa onda di disinteresse verso le opere che ragionano da vicino sulla favola: paradigma perfetto di questa deriva (frutto ancora una volta della più totale ignoranza in cui versa lo stato della critica italiana per quel che concerne la storia del cinema d’animazione) è risultato lo splendido Ponyo on the Cliff by the Sea, ultimo capolavoro partorito da Hayao Miyazaki, accusato da più parti di essere un film troppo semplice, bambinesco e infantile.

Ma tant’è, abbandoniamo per il momento questa polemica per addentrarci nella lettura critica di $9.99, lungometraggio d’esordio di Tatia Rosenthal presentato nell’ambito della selezione di Extra – L’Altro cinema al Festival del Film di Roma. La trentasettenne regista, israeliana di nascita e newyorchese d’adozione, ha messo in piedi una co-produzione israeliano-australiana; prendendo spunto dai racconti dello scrittore israeliano Etgar Keret (purtroppo poco conosciuto in Italia, è uno dei massimi rappresentanti della new wave letteraria di Tel Aviv e dintorni, fautore di uno stile umanistico che non disdegna digressioni nel surreale e abbozzi di post-modernismo), edifica un’operetta morale sui rapporti interpersonali. La poetica di Keret si adagia perfettamente a questa narrazione in stop-motion, e lo spaccato che ci viene descritto ha la potenza di una scrittura approfondita e mai banale (si veda il rapporto di coppia tra l’uomo ancora affetto dalla sindrome di Peter Pan e la sua compagna, che desiderebbe avere un bambino ma non ha la minima flessibilità nel cercare di venire incontro alle necessità del suo uomo: la sincera presa di posizione equidistante della Rosenthal ci fa penetrare fin dentro gli incavi più nascosti e i dettagli apparentemente insignificanti di questa relazione) e la suggestione di un apparato visivo elegante e terraceo ma pronto a lasciarsi condurre via da voli pindarici di assoluto spessore. Esempi di cinema surreale come l’amore privo di compromessi che conduce un addetto al pignoramento a farsi trasformare in comodo divano per la sua bella, o il delicato e commovente rapporto di amicizia tra un bambino e il suo salvadanaio a forma di maiale – magistrale l’abbandono del fedele suino sulle sponde del lago, carico di un affetto sottaciuto e lacerante che ci ha ricordato il rapporto osmotico bambina/peluche che Anders Morgenthaler metteva in scena nel bel Princess – non sono cose che si incontrano tutti i giorni, e meritano di essere valorizzate a dovere. Anche perché al tutto si sposa l’ottima regia della Rosenthal, mai ovvia nella scelta dei campi di ripresa e dei movimenti di macchina, come può testimoniare la sequenza della caduta a volo d’angelo (è proprio il caso di dirlo) dal tetto dello stabile in cui si svolge buona parte della vicenda.

$9.99 è un notevole esempio di stop-motion, pratica cinematografica che ha avuto maestri in ogni latitudine (tra gli altri Jan Svankmajer, Jirí Trnka, Tim Burton, Wladyslaw Starewicz, Nick Park, i fratelli Quay, Ivo Caprino) e che ha con sé il fascino indiscreto del materico, l’illusione dell’impossibile-tangibile. Nella speranza (vana?) che il film della Rosenthal possa trovare ospitalità sugli schermi dei nostri cinema, come altre perle abbandonate maledettamente al loro destino – per restare nel campo dell’ultima stagione, impossibile non citare il notevole Jedné noci v jednom meste di Jan Balej. L’unica via per riuscire a creare un pubblico in grado di comprendere la reale stratificazione del cinema d’animazione è quella di dare la possibilità agli astanti di assaporare stili e ipotesi poetiche in netto contrasto tra loro…

Info
Il trailer originale di $9.99.
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