Il passato

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Presentato in concorso al Festival di Cannes, Il passato di Asghar Farhadi ci pone di fronte alla complessità dei rapporti umani, della quotidianità. Nelle sale dal 21 novembre.

Separazioni

Dopo quattro anni di separazione, Ahmad arriva a Parigi da Téhéran, per chiudere la pratica di divorzio da Marie, la sua sposa francese. Durante il breve soggiorno, Ahmad si rende conto della profonda crisi tra Marie e la figlia sedicenne Lucie. Gli sforzi di Ahmad per cercare di migliorare la situazione porteranno alla luce dolorosi segreti… [sinossi]

Presentato alla 66a edizione del Festival di Cannes, in concorso, Il passato di Asghar Farhadi ci pone di fronte alla complessità dei rapporti umani, della quotidianità, ma anche al precario equilibrio delle poetiche autoriali, così legate alle dinamiche produttive, alle attese e pretese critiche e festivaliere. Sgomberiamo subito il campo da qualsiasi dubbio: osservatore della realtà e metteur en scène elegante e rigoroso, Farhadi prosegue il cammino iniziato con Dancing in the Dust (2003) e impreziosito dai successivi e celebrati About Elly (2009) e Una separazione (2011), pur non riuscendo a mantenersi al livello dell’Orso d’oro berlinese. Insomma, Il passato è indubbiamente un buon film, a tratti anche entusiasmante, ma appesantito da una seconda parte inutilmente complessa, narrativamente forzata [1].

La naturalezza e scorrevolezza della prima parte, focalizzata sui legami interpersonali di Ahmad, lascia il posto a una sorta di detection famigliare, a un accumularsi di rivelazioni e confessioni. Gli intenti metaforici e didascalici di Farhadi appaiono per una volta ridondanti e alcune soluzioni narrative, in primis il ruolo affidato a Sabrina Ouazani (Naïma), quasi fuori posto. Ed è un peccato, visto il commovente realismo dei dialoghi e delle situazioni della prima ora e mezza della pellicola: si vedano, ad esempio, l’arrivo in aereoporto e l’attesa di Marie (Bérénice Bejo), col sagace utilizzo del dialogo muto; l’incontro tra Ahmad e i piccoli Fouad e Léa, conquistati con la riparazione della catena di una bicicletta; l’altalena emotiva tra Ahmad e Marie; l’esplosione di violenza e rabbia tra Marie e Fouad; la pipì notturna di Fouad e via discorrendo.
Poco dopo una sequenza dalla geniale semplicità ed efficacia (la discussione tra Léa e Fouad: una microversione a dimensione di fanciullo delle riflessioni su verità, menzogna e colpa di Una separazione), la sceneggiatura di Farhadi prende una deriva inattesa, ingabbiandosi in una spirale dai contorni melodrammatici. Colpe e incomprensioni di affastellano, in un crescendo stridente, mentre la figura rassicurante di Ahmad lascia il posto a Samir, il bravo ma meno efficace Tahar Rahim (Il profeta).

Alle prese con una produzione italo-francese (Memento Films Production , France 3 Cinéma e Bim Distribuzione), Farhadi sembra quasi costretto a misurarsi con una dimensione esclusivamente minimalista, rinunciando al contesto sociale e politico. E così il suo cinema morale, ma mai moralista, perde un pezzo, una componente fondamentale. Difficile riuscire a quantificare lo scotto delle mutate ambizioni produttive, del cast dal diverso peso specifico, di un pubblico più vasto da raggiungere. Allo stesso modo, non è semplice rapportarsi a un’opera post-Una separazione, pellicola contraddistinta da uno script esemplare.
Merita un accenno il cast a disposizione di Farhadi. Bene anzi benissimo Ali Mosaffa (Ahmad), seguito a ruota da Bérénice Bejo e Tahar Rahim. Ma sono la diciassettenne Pauline Burlet (Lucie), una Marion Cotillard in divenire, e il piccolo Elyes Aguis a rapire i nostri occhi e il nostro cuore. La scelta e la direzione degli attori è, ancora una volta, impeccabile.

Note
1. Giunto al sesto lungometraggio, Farhadi ha scritto e diretto anche Beautiful City (2004) e  Fireworks Wednesday (2006). Tra le sceneggiature non dirette, segnaliamo Canaan (2008) di Mani Haghighi e Tambourine (2008) di Parisa Bakhtavar.
Info
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