Paolo Cherchi Usai: La resistenza della pellicola
Abbiamo incontrato nuovamente, a distanza di un anno, Paolo Cherchi Usai, direttore della George Eastman House e socio fondatore delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, per discutere, tra le altre cose, del futuro della pellicola e delle cineteche che la preservano e custodiscono.
[La foto è di Paolo Jacob]
Si esce da un’intervista a Paolo Cherchi Usai (questa per noi è la seconda, dopo l’incontro avvenuto lo scorso anno) in uno stato febbrile, dominato da un’intermittenza di preoccupazione ed entusiasmo, ma anche con una certezza: di queste cose, di quelle che lui ci dice, bisogna parlarne. Abbiamo incontrato Cherchi Usai, direttore della prestigiosa George Eastman House di Rochester, in occasione della 33esima edizione delle Giornate del Cinema Muto di cui è socio fondatore. Dopo aver parlato dell’ultima edizione del festival e in particolare della sezione di cui è curatore, “Il canone rivisitato”, abbiamo discusso di digitale e pellicola, della differenza tra conservazione e preservazione del patrimonio filmico, delle politiche del restauro e dell’importanza di preservare, oltre alle pellicole, anche tutto l’apparato necessario a garantire la prosecuzione dell’esperienza della proiezione. Perchè anche se è un’utopia anelare a un “everlasting picture show”, è un nostro dovere-diritto allontanare il più possibile la data di un “last picture show”.
Vorremmo partire dalla 33esima edizione delle Giornate del Cinema Muto e in particolare dalla sezione di cui sei il curatore, Il Canone Rivisitato, dove tra le altre cose è stato possibile vedere I Nibelunghi di Fritz Lang, in una proiezione magnifica, sorprendente. Che scelte ti hanno guidato per la selezione di quest’anno?
Paolo Cherchi Usai: Il principio ispiratore della retrospettiva è quello dichiarato sei anni fa, all’inizio del progetto. È la consapevolezza che c’è un pubblico, soprattutto giovane, che non ha mai visto i cosiddetti “film canonici” del cinema muto sul grande schermo, e in buone copie, in un festival che ha costruito la propria reputazione sulla scoperta di ciò che è sconosciuto. Ma occorre intendersi su ciò che è “sconosciuto” e per chi, per quale tipo di pubblico. Sulla carta non è stato difficile stilare una lista dei film che sono citati nelle storie del cinema e che avremmo voluto riproporre. Abbiamo scoperto nel corso degli anni che in realtà questa scelta, concepita per le nuove generazioni, si è rivelata utile anche per un pubblico più maturo, che ha già visto questi film tempo fa, ma che ha finito per darli per scontati. Rivedere un film con il senno di poi, a distanza di tempo, offre l’opportunità di fare nuove valutazioni, riscoperte o rivisitazioni, come dice il titolo della retrospettiva. L’esempio di Die Nibelungen è emblematico: è un film indubbiamente famoso, ma ho già sentito colleghi dire “Non ricordavo che fosse così, che potesse darmi questo tipo di emozioni”. La realtà è ancora più complessa. Oltre al fatto che Le Giornate del Cinema Muto hanno la necessità di diversificare la loro programmazione sulla base di numerose variabili – cronologia, nazionalità, temi – scopriamo spesso che questi film “canonici” non sono più disponibili in copie di qualità adeguata. Quindi la selezione effettuata ogni anno deve tenere conto anche degli esemplari esistenti. Volevamo mostrare Die Nibelungen da molto tempo. Quando abbiamo finalmente deciso di presentarlo c’è stata una discussione animata sulla scelta del formato, tra chi voleva proiettarlo in copia 35mm e chi in DCP. Da parte mia ritengo che, se una buona copia a 35mm esiste, sia doveroso mostrare quella. Non per una questione di purismo, ma perché per noi mostrare i film in 35mm significa anche, indirettamente, incoraggiare lo sviluppo delle politiche di restauro intraprese dalle cineteche. Se non siamo noi a insistere affinché il cinema sia mostrato nel suo formato di origine, dov’è l’incentivo per le cineteche a restaurare i film come si deve? Restaurare i film in 35mm si può ancora, e si deve.
Il restauro de I Nibelunghi è stato fatto dunque in 35mm?
Paolo Cherchi Usai: Sì. È stato restaurato in 35mm, oltre che in formato digitale, dalla Fondazione Friedrich Willhelm Murnau, e questo restauro in particolare è davvero speciale perché la tintura per imbibizione della pellicola è stata effettuata manualmente. La copia vista alle Giornate era davvero unica e speciale.
Come avete composto invece il programma dedicato al Techinicolor, che componeva una parte della selezione di quest’anno qui alle Giornate?
Paolo Cherchi Usai: La prima parte del programma è dedicata al contesto storico, ovvero a quelle tecniche di colorazione che hanno preceduto o affiancato le origini del Technicolor. Mentre i tecnici della Technicolor stavano mettendo a punto il loro sistema di cinema a colori, erano in corso molte altre sperimentazioni. Abbiamo per esempio proiettato alcuni film in Kelley Color, un sistema che offriva risultati molto simili a quelli del primo Technicolor; altri procedimenti erano elaborati in altri paesi, dalla Francia agli Stati Uniti. Volevamo insomma dimostrare che il Technicolor non è spuntato dal nulla, è stato uno dei tanti esperimenti di cosiddetto “colore naturale” intrapresi negli anni Dieci e nel decennio successivo. Il Technicolor ha incontrato a un certo punto il favore del pubblico e ha funzionato meglio sul piano del bilanciamento fra costi e risultati. L’idea alla base del programma è che il Technicolor ha avuto successo al termine di una competizione molto agguerrita. C’erano altri tecnici e altri imprenditori, e il loro talento era spesso notevole, ma le loro invenzioni non hanno avuto lo stesso successo.
Quali sono le principali problematiche legate alla conservazione delle pellicole in Technicolor?
Paolo Cherchi Usai: Sembra che le pellicole originali in Technicolor siano piuttosto stabili dal punto di vista della permanenza cromatica, se conservate ai giusti livelli di temperatura e umidità. Va sottolineato che, se queste pellicole del primo Technicolor fossero state conservate in modo adeguato fin dall’inizio, molte di esse sarebbero oggi perfettamente proiettabili. Ve ne sono ancora molte in buono stato. In tal senso, la George Eastman House sta organizzando un festival annuale dedicato per l’appunto alla proiezione di copie originali. Si intitola The Nitrate Picture Show, si svolgerà durante il primo weekend di maggio 2015, e presenterà esclusivamente copie d’epoca in nitrato, provenienti da diverse cineteche. Il sottotitolo dell’evento è “Festival of Film Conservation”. Attenzione: “Conservation”, non solo “Preservation”, il che è diverso: questo è per noi un modo di mettere in risalto il fatto che prendersi cura delle copie significa soprattutto salvaguardare la possibilità che esse siano proiettabili in futuro. Un festival del genere può essere allestito solo nelle pochissime cineteche di quei paesi in cui la proiezione della pellicola in nitrato è ancora autorizzata. Vedere una buona copia in nitrato proiettata sul grande schermo è un’esperienza davvero speciale. È un vero peccato che questo tipo di festival non si possa fare in Italia perché in Italia – visto che il nitrato è infiammabile – la proiezione di queste copie è illegale, come lo è d’altronde nella maggior parte dei paesi europei. Essa è invece ancora consentita negli Stati Uniti, sia pure nell’ambito di un regolamento estremamente severo per ciò che riguarda la cabina di proiezione, lo staff, la quantità di pellicola che può essere tenuta nella cabina di proiezione. La cabina deve essere dotata di due ingressi, i proiettori devono avere in dotazione un dispositivo che impedisce il passaggio del fuoco nei comparti dedicati sia alla bobina debitrice che a quella ricevente, per cui è impossibile che un eventuale incendio si estenda al resto della pellicola. È anche richiesto che vi siano sempre due proiezionisti in cabina, e uno speciale contenitore dove collocare le bobine prima e dopo la proiezione. A quanto mi risulta ci sono negli Stati Uniti solo quattro o cinque cinema che possono permettersi tutte queste precauzioni. È un peccato, perché vedere un film come Narciso nero su una copia 35mm in nitrato è un’esperienza indimenticabile. Chi verrà a The Nitrate Picture Show farà presto a capire la differenza.
Ha fatto scalpore la notizia, lanciata qualche mese fa, che le sale che in Usa hanno ancora il 35 o il 70mm avrebbero avuto la copia di Interstellar di Christopher Nolan prima delle altre. Come dobbiamo interpretare questa novità?
Paolo Cherchi Usai: Questo è un messaggio politico e culturale che Christopher Nolan ha lanciato all’industria del cinema. Come avrete certamente letto la cosa ha suscitato grandi polemiche, ma sono lieto che questa discussione abbia luogo. Insieme a Tarantino, Alexander Payne e ad altri, Nolan è un portavoce della qualità unica e irripetibile del cinema su pellicola. Nessuno si fa illusioni sul fatto che quando si parla di tecnologia non si torna mai indietro, ma quando personalità come queste o come l’artista britannica Tacita Dean si esprimono in pubblico in maniera così netta e così energica, questo è il genere di messaggio che conforta le cineteche. È grazie a loro che abbiamo fondato – insieme a Tacita Dean e al direttore della fotografia Guillermo Navarro, collaboratore abituale di Guillermo del Toro, un’organizzazione chiamata “Savefilm” (www.savefilm.org), volta a promuovere l’immagine fotochimica: non come alternativa al digitale, ipotesi del tutto anacronistica e tutto sommato inutile, ma come rivendicazione delle virtù specifiche del cinema su pellicola. È evidente che non ha senso sognare un mondo che a un certo punto torna sui suoi passi. Siamo però convinti che non si tratti di discutere su cosa sia “meglio” o “peggio” – la pellicola o il digitale – ma che sia utile invece riconoscere le specificità dei due media. Pensiamo cioè che possa esserci posto, sia a livello culturale che industriale, per l’uno e l’altro. Più volte è stato fatto il paragone fra il declino della pellicola con quello della musica su vinile con l’introduzione del CD. Sembrava che il vinile fosse sul punto di scomparire, e invece cos’è successo? Il vinile si è risollevato a un passo dall’estinzione ed è diventato un’industria di nicchia. Succederà la stessa cosa con la pellicola? Certo, in questo caso le cose sono molto più complicate, perché un conto è mantenere in funzione una manifattura per dischi vinile, e un altro un impianto per la produzione di pellicola. Ma perché dare per scontato che ciò sia impossibile? Ci sono già alcune iniziative in questa direzione, come il caso italiano della Ferrania. Si tratta di capire se sia possibile mantenere in funzione un’azienda, magari di piccole dimensioni, ma sufficiente a creare un mercato specializzato nel settore. È un piccolo segnale, d’accordo, ma è meglio di niente. Bisogna soprattutto crederci. Quando ho iniziato a parlarne con Guillermo Navarro ricordo di avergli detto, “tu lavori nell’industria, e sai benissimo che è l’industria ad avere l’ultima parola, quasi tutti sostengono che ci stiamo imbarcando in una missione impossibile”. La sua risposta è stata eloquente: “Vengo da un paese, il Messico, dove tutto pare impossibile. La mia unica risposta è che bisogna lottare, non darsi per vinti, nemmeno di fronte all’evidenza”. Fino a un paio di anni fa sembrava che i giochi fossero fatti, ma adesso ci sono segnali forti, e sono segnali che non provengono più solo dalle cineteche. Quando personalità come Nolan e Tarantino diventano consapevoli del fatto che le loro dichiarazioni fanno notizia, la loro azione diventa uno strumento prezioso. Se i giornali dicono che Tarantino ha eliminato il DCP dal cinema di sua proprietà, la cosa viene presa come eccentricità o folklore, ma almeno la gente ne parla. Vedremo che cosa succede. Questa è una causa degna di essere sostenuta, e sono sempre stato convinto che considerare persa una battaglia non sia un buon motivo per non combatterla.
Forse la Paramount, con questo fatto di privilegiare le sale che hanno ancora i proiettori in pellicola, di questa richiesta di Nolan ne ha fatto anche uno strumento promozionale.
Paolo Cherchi Usai: È il classico caso di una mano che lava l’altra. Nolan ha raggiunto un potere tale a Hollywood da potersi permettere di fare la voce grossa. Evidentemente lui è riuscito a imporre le sue condizioni. L’industria, da parte sua si piega a ciò che considera un capriccio autoriale, ma è vero che intanto si è parlato molto del caso, e questo fa bene alla comunità delle cineteche e dei musei. Dimenticavo poi di citare un altro nome, quello di Paul Thomas Anderson, che aveva fatto distribuire The Master in 70mm. C’è insomma un gruppuscolo di “resistenza” al digitale, armata del prestigio di questi nomi e della convinzione che il futuro di un’arte non sia inevitabile e soprattutto non debba essere lasciato nelle mani dei tecnocrati. Trovo bizzarro che molti colleghi, sia nel campo degli studi di cinema che in quello delle cineteche, professino convinzioni di sinistra e poi si comportino secondo la logica del più sfacciato neoliberismo. È chiaro che Nolan, Anderson, Tarantino non pensano neanche in questi termini politici, ma io la vedo anche così. Il loro gesto è un modo per dire che l’industria del cinema può fare quello che vuole, ma non esisterebbe senza i registi. È esattamente quello che diceva anche Méliès, nel suo celebre discorso del febbraio 1908 al congresso internazionale dei produttori e distributori di film a Parigi: “D’accordo, il cinema sta diventando un’industria. Ma senza di noi, gli artisti, l’industria non esiste”. E questo è proprio ciò che sta dicendo Nolan. Il fatto che vi siamo registi famosi, dotati del coraggio di dire che il futuro di un’arte non deve essere abbandonato alla dittatura tecnocratica, è degno di nota.
Ma ci sono ancora i proiettori per chi, come Nolan, vorrà proiettare in pellicola?
Paolo Cherchi Usai: Ci sono eccome, e hanno diversi vantaggi: sono più robusti e longevi di quelli digitali, e poi non hanno bisogno di “upgrade”. Nella cabina di proiezione della George Eastman House, oltre al proiettore digitale, ci sono quattro proiettori a 35mm. Due di essi, di marca Kinoton, sono stati costruiti quindici anni fa; gli altri due, di marca Century, hanno almeno 65 anni di vita e funzionano benone. Basta prendersene cura. I proiettori sono un po’ come i pianoforti: devono essere accordati di tanto in tanto perché diano il meglio di sé. Il modello Century in dotazione alla George Eastman House è adatto alla proiezione del nitrato. Questi proiettori sono per noi preziosi quanto le pellicole, e questo è un altro argomento di cui si parla poco nel mondo delle cineteche e quasi mai in pubblico. Quando si discute di conservazione e restauro del film, riferirsi solo all’immagine o al suo supporto è quantomeno riduttivo. Il restauro del film inizia in laboratorio ma giunge a compimento in cabina di proiezione. Oltre a restaurare e conservare il film dovremmo restaurare e conservare l’apparato di proiezione che rende possibile l’esperienza del cinema. Decine di migliaia di proiettori sono stati gettati in discarica in maniera sciocca e miope. Questo è in realtà il momento migliore per acquistarli a costi irrisori. Ciò che mi rende ottimista è il fatto che, malgrado tutto, ci sono in giro ancora migliaia di proiettori in buono stato. Oltre a promuovere la loro conservazione e il loro restauro, dobbiamo promuovere la professionalità di coloro che li sanno utilizzare proiettando pellicola senza rovinarla. Anche i proiezionisti costituiscono una specie a rischio di estinzione, e per scongiurarla occorrono scuole specializzate che solo le cineteche possono a questo punto organizzare. La loro competenza non deve essere limitata alla proiezione vera e propria. Molti proiettori di pellicola sono fatti soprattutto di componenti meccaniche, e dovremmo imparare a ricostruirle quando necessario per assicurare la disponibilità di pezzi di ricambio. Saper costruire un meccanismo a intermittenza o un rocchetto è una cosa che qualsiasi laboratorio artigianale di precisione può fare. Finché si sapranno costruire ingranaggi del genere, così come lenti anamorfiche, sarà possibile conservare la proiezione di film su pellicola. Dobbiamo quindi garantire alla conservazione degli apparati di proiezione la stessa dignità culturale attribuita alla conservazione e al restauro della pellicola. Dobbiamo coltivare il know how della proiezione così come quello della manutenzione del proiettore, perché senza un proiettore in buono stato un film restaurato su una pellicola in perfette condizioni non serve a un bel niente. Vale la pena di fare un paragone con la musica: quella rinascimentale, ad esempio, era praticamente scomparsa dal repertorio perché non si trovavano più gli strumenti necessari a eseguirla. Non si sapeva più com’era fatta una viola da bordone del Seicento, o un certo tipo di liuto. Ad un certo punto, alcuni artigiani si sono messi a consultare i manuali sulla fabbricazione degli strumenti d’epoca custoditi nelle biblioteche, ed ecco che oggi la musica barocca è diventata di moda e noi possiamo andare in una sala da concerto e ascoltarla su strumenti che riproducono con buona approssimazione quelli di quattrocento anni fa. Se sono capaci di farlo per strumenti così sofisticati, perché non dovremmo fare la stessa cosa per un proiettore? Le cineteche non ne parlano perché sono ancora sotto l’ubriacatura del digitale, ma quelle che si prenderanno carico di questo impegno nel nome della posterità avranno di fronte a sé possibilità notevoli. Non faccio fatica a immaginare che fra duecento o trecento anni ci sarà un piccolo gruppo di musei altamente qualificati, dove il cinema potrà ancora essere proiettato su pellicola perché ci saranno conservatori in grado di costruire, ricostruire, mantenere in funzione le apparecchiature del ventesimo secolo. Questo finché ci sarà ancora pellicola da proiettare, è chiaro. E qui la sfida è aperta. Quando parlo di “festival della conservazione”, la domanda è questa: fin dove possiamo arrivare e per quanto tempo? Sono fiducioso a questo riguardo. È probabile che un nitrato del 1920 non potrà più essere proiettato nel 2220, ma le centinaia di migliaia di copie in 35mm e 16mm che esistono oggi potrebbero essere ancora lì. Le cineteche non le butteranno via, almeno lo spero, e qualcuno avrà pure voglia di proiettarle prima o poi. Gli archivi e i musei sono attualmente in possesso di una quantità enorme di copie che oggi nessuno vuole più proiettare, ma che sono lì, e a meno che qualcuno non decida di disfarsene ci sarà materiale da proiettare per moltissimo tempo; parlo di secoli, se continueremo a conservarle come si deve. Nel frattempo, finché ci sono individui o gruppi convinti che la pellicola cinematografica possa essere ancora fabbricata e proiettata, c’è speranza per il futuro. Pellicola per gli schermi, dunque, ma anche apparecchiature, professionalità, talento personale. La specializzazione necessaria al restauro dei dipinti dovrebbe esistere anche a proposito della proiezione. Il fatto che ora non se ne parli non mi preoccupa, è un fatto di selezione naturale. Per il momento vedo solo una decina di istituzioni che la pensano così; vanno avanti per la loro strada, e fanno bene. Il tempo darà loro ragione. Si tratta di vedere se questa minoranza così esigua sarà destinata ad allargarsi o meno. Sappiamo che cosa fare per favorirne l’allargamento. Occorre lanciare una campagna per la conservazione del cinema in quanto evento, della proiezione come complesso di arte, tecnologia, artigianato – non mi vergogno affatto a usare questo termine – e di conoscenza scientifica in materia di chimica, di ottica, in tutto ciò che pertiene a ciò che il cinema è stato per oltre 120 anni.
Ritornando invece alla politiche del restauro, un argomento che abbiamo affrontato già lo scorso anno, ti vorremmo chiedere cosa ne pensi del fatto che a Venezia quest’anno è stato presentato il restauro de L’udienza realizzato dal Museo del cinema di Torino che però, non avendo i fondi necessari lo ha fatto con l’ausilio del crowdfunding.
Paolo Cherchi Usai: Penso che il crowdfunding sia una buona idea dal punto di vista promozionale, ma non una soluzione strutturale ai problemi finanziari delle cineteche. È un utile strumento di sensibilizzazione collettiva. Bene dunque, ma non ci si illuda che questo cambi le cose. È l’equivalente di un’efficace campagna pubblicitaria, quindi non c’è motivo di essere diffidenti al riguardo. Occorre però prestare attenzione a un importante dettaglio. Suppongo che qualcuno possegga i diritti legali per L’udienza, e che quindi il detentore di questi diritti voglia avvalersi della sua proprietà per ricavarne denaro. In tal caso consiglierei cautela prima di chiedere a un privato cittadino di finanziare il restauro di un film che qualcun altro sfrutterà per ricavarne profitto. Mettiamola così: se il privato cittadino investe una pur modesta somma di denaro nel restauro di un film di proprietà altrui, sarebbe logico che questo cittadino potesse anche partecipare agli utili, in maniera magari minuscola, o almeno beneficiare a titolo gratuito del film restaurato. Se io contribuisco alla missione di recupero di un’opera sotto diritti, vorrei esserne ripagato in qualche modo, come minimo con il diritto a vedere il film a titolo gratuito, visto che il mio contributo ha salvaguardato l’esistenza di un bene culturale che ha anche un valore economico. Qualcosa di analogo è accaduto qualche anno fa, quando il British Film Institute ha chiesto l’aiuto finanziario del pubblico per restaurare nove film muti di Hitchcock. La mia risposta a questa lodevole iniziativa è semplice: sono volentieri disposto a offrire i miei cento euro per restaurare i film di Hitchcock, purché non mi sia poi chiesto di pagare per vederli. La stessa cosa vale – in altro contesto – per il crowdfunding della Ferrania, dove occorre chiarezza su ciò che il donatore otterrà in cambio del proprio contributo e che vantaggio ne trarrà il committente. Il discorso cambia qualora l’iniziativa riguardi il restauro di un film di pubblico dominio, nel qual caso il finanziamento va a beneficio dell’intera collettività e nessuno ci guadagnerà sopra. Altrimenti non ci sto. È come se io comprassi un’automobile e poi il costruttore mi chiedesse di utilizzarla quando gli pare. Se la tenga, allora.
Sempre lo scorso anno avevamo parlato lungamente di Too Much Johnson e del suo restauro. Quale è stato il percorso del film nel corso dell’anno e, soprattutto, come è stato accolto in America?
Paolo Cherchi Usai: Too Much Johnson ha fatto parecchia strada, è stato visto da molte persone e adesso esiste anche su Internet. Trovo interessante che la sua disponibilità in rete non abbia per nulla scalfito la quantità di richieste di proiezione su grande schermo, in copie a 35mm, con musica e presentazione dal vivo. Ecco una bella dimostrazione che il cinema non è solo “contenuto”. Too Much Johnson continua ad essere presentato secondo la stessa formula adottata alla “prima” mondiale di Pordenone del 2013, cioè in quanto performance con commento critico e informazioni sulla lavorazione del film. Stiamo sviluppando progetti di adattamento del film ad allestimenti teatrali, immaginando ciò che Orson Welles avrebbe voluto realizzare con la pièce originale di William Gillette; qualcosa del genere dovrebbe vedere la luce al Film Forum di New York il 2 febbraio dell’anno prossimo, con tanto di interpreti che leggeranno il copione della commedia durante la proiezione del film. L’idea sarà ulteriormente sviluppata a Rochester insieme agli studenti della Selznick School of Film Preservation, evidentemente interessati a sviluppare questo progetto di ibridazione fra cinema e teatro.
Ma l’associazione CinemaZero è ancora detentore dei diritti?
Paolo Cherchi Usai: Too Much Johnson è un film “orfano”, e per quel che ci risulta nessuno ne detiene i diritti. Cinemazero è l’ovvio punto di riferimento morale del recupero del film, perché senza il ritrovamento da parte di Mario Catto e senza la sua decisione di affidare le bobine in nitrato a Cinemazero, noi non saremmo qui a parlarne e con ogni probabilità il film non esisterebbe più.
Ma quindi nessuno ha reclamato i diritti del film?
Paolo Cherchi Usai: Oh, certo che sì. Lo hanno reclamato, eccome, e mi sono molto divertito a osservare le schermaglie legali che ne sono derivate. I pretendenti hanno provato a fare la voce grossa nella speranza di mettere le cineteche sulla difensiva, ma la loro risposta è stata semplice: “Ah sì? il film è vostro? allora saprete certamente spiegarci perché lo avete abbandonato a Pordenone, e certamente potete dimostrare documenti alla mano che ne possedete i diritti. Quando sarete in grado di fornire le prove dell’una e dell’altra cosa saremo ben lieti di discutere i costi del restauro”. Da quel momento nessuno ha più profferito parola. Morale della favola: le cineteche sono spesso timide e non sanno rivendicare i loro diritti perché non sono preparate a difendersi. Dovrebbero ogni tanto avere il coraggio di puntare i piedi, guardare negli occhi gli sfruttatori del restauro altrui e sfidarli in pubblico, a viso aperto. Non di rado questi presunti aventi diritto non sono nient’altro che tigri di carta, buone a ruggire con gli strumenti della burocrazia, del ricatto e dell’indifferenza. Con un po’ di astuzia e di determinazione, un giornalista dotato di esperienza e di onestà intellettuale ne scoprirebbe di tutti i colori.
A proposito di politiche del restauro, diversi mesi fa abbiamo intervistato Emiliano Morreale e ci ha detto che le risorse della Cineteca Nazionale sono limitate e quindi loro fanno il ritorno in pellicola di un film restaurato solo una volta su quattro, il che significa che gli altri tre film sono destinati a restare solo su digitale.
Paolo Cherchi Usai: Viviamo nella realtà, e la realtà non ci consente di fare tutto quello che vorremmo. Alcuni compromessi sono inevitabili. L’importante è non perdere mai di vista il motivo per cui li accettiamo, e non darli mai per scontati. Ci possono essere tanti buoni motivi per cui un curatore di cineteca deve piegarsi alle necessità del momento. Detto questo, occorre anche dire che quando si tratta di coltivare o promuovere una politica di restauro analogica o digitale bisogna anche stare attenti a non predicare bene e razzolare male. Provo un forte disagio quando una cineteca si vanta dei propri restauri e poi non sa come maneggiare una pellicola senza danneggiarla. Provo anche un certo scoramento di fronte al proliferare di situazioni in cui cineteche e festival di grande reputazione affermano di promuovere la causa del restauro, ma non sanno più proiettare un film in pellicola o non si preoccupano di ciò che succede in cabina di proiezione, dove le copie vengono rigate, bruciacchiate e riavvolte alla carlona, con tanti auguri all’etica del restauro. Un tempo c’era la scusa che una copia danneggiata è facile da sostituire con un’altra. Chi lo proclamava nelle cineteche di venti anni fa se ne sta ora zitto, ben sapendo che la sua era una menzogna. Oggi lo è ancora di più. Il fenomeno ha assunto proporzioni così gravi per i motivi ai quali si è appena accennato, primo fra tutti il graduale deterioramento della professionalità nelle cineteche. Questo vale anche per la gestione di formati che un tempo sarebbero stati considerati facili da proiettare, come il 16mm. Le conseguenze di tutto ciò non tarderanno a manifestarsi, e lo si vede già a livello internazionale. Le cineteche non si azzarderanno più a prestare i loro film a chi non sa prendersene cura, e il pubblico dovrà rivolgersi altrove per vederle. I festival di massa e di serie B riceveranno copie digitali al posto delle pellicole, e a loro andrà benone – lo si vede già in luoghi prestigiosi – perché dal loro punto di vista avranno una seccatura in meno. L’evento della proiezione su pellicola sarà appannaggio di un’esigua minoranza di cineteche e dei festival che sapranno prendersene cura. La parola “élite” fa spavento a tutti perché è utilizzata volentieri a scopo demagogico, per sbarazzarsi di opinioni scomode, ma non vedo perché il Pacific Film Archive di Berkeley o il Filmmuseum di Vienna, dove le proiezioni di film su pellicola sono impeccabili, debbano vergognarsi di mostrare il cinema come si deve. Chi non sa farlo dovrebbe essere cauto prima di fregiarsi della parola “restauro”.
Le proiezioni in DCP non sono sempre uguali. Ad esempio, quando abbiamo intervistato Vieri Razzini, ci ha detto di aver visto a Roma Nebraska di Alexander Payne e di aver avuto l’impressione che la fotografia del film non fosse particolarmente contrastata. Al contrario, noi il film di Payne l’abbiamo visto a Cannes e ci era sembrato che avesse un bianco e nero molto contrastato. Come mai?
Paolo Cherchi Usai: Questo è un altro mito da sfatare: il mito della proiezione digitale sempre uguale a se stessa, la proiezione per la quale basta premere un pulsante. Non è mai stato così. La proiezione digitale è anch’essa un’arte. Non importa quanti K ci siano in un DCP; se è proiettato in maniera sbagliata, è orribile comunque. Un proiettore digitale deve essere calibrato in modo non meno preciso di quello analogico. Per averne la prova basta andare a vedere lo stesso film in luoghi diversi; la memoria visiva è purtroppo molto breve, bisognerebbe farlo in giornata per notare la differenza. Ma la differenza c’è e si vede. Anche questo è un dovere delle cineteche: l’educazione allo sguardo è una materia che non ha confini tecnologici, e vale per il cinema così come per il digitale. In termini di conservazione e restauro del digitale, l’archivista di domani dovrà porsi gli stessi problemi etici che ci poniamo oggi per l’analogico. Il conservatore della cineteca del futuro dovrà affrontare le stesse questioni deontologiche: cambia lo strumento, ma non cambiano le domande che ci si deve porre con obiettività e trasparenza, due qualità sulle quali, nel nostro settore, abbiamo ancora molto da imparare.