Il magnifico cornuto

Il magnifico cornuto

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Per la rubrica Un Pietrangeli al mese, questa volta riscopriamo Il magnifico cornuto. Opera considerata a torto minore nel percorso dell’autore, a tutt’oggi si rivela invece per un altissimo esempio di rilettura personale della commedia all’italiana anni Sessanta.

Italia, anni Sessanta. Una selva di emergenti status symbol. Tra i tanti, assume sempre maggior rilievo un nuovo oggetto, da custodire ed esibire: la donna. Ancora vittima di una società fortemente maschilista, negli anni del boom economico italiano la bellezza femminile assume tratti ancor più consumistici. Entra a far parte di un armamentario neo-borghese fatto di soddisfazioni prettamente materiali, in cui anche la bella moglie sottobraccio, fonte d’invidia per gli altri, occupa un ruolo di primissimo piano. È una gara tutta maschile al possesso. Ho la macchina più bella e più potente di te, ho una casa più vistosa della tua, e dentro quella casa una regina, una statua di indiscutibile gradevolezza fisica. In questa sorta di processo di estrema materializzazione (la donna-automobile) e al contempo di smaterializzazione (oggetto da esibire per la sua carica innanzitutto simbolica), al maschio italico del boom italiano sfugge però la proditoria duttilità di questo meccanismo psico-sociale: la donna è anche carne, sensualità, attrazione. Un doppio movimento altamente nevrotico: esibire la propria moglie come status symbol, ma cercando di dimenticare che in lei pulsa la vita vera, con la sua carica sensuale ed erotica. Mostrare ed esibire, tentando di imprigionare.
Spesso si è considerato Il magnifico cornuto (1964) un episodio dissonante nella carriera di Antonio Pietrangeli e soprattutto nell’ambito delle sue opere maggiori. Per una volta, si è sovente detto e scritto, Pietrangeli abbandona l’universo femminile e si concentra sulla disamina crudele e impietosa del maschio del boom, colto nelle sue contraddizioni e nel suo conclamato e nevrotico benessere.
Certo è innegabile che il protagonista indiscusso sia l’Andrea Artusi interpretato da Ugo Tognazzi, una sorta di risposta maschile a tutti i penetranti ritratti di donna pietrangeliani. Ma a ben vedere il “discorso femminile” permea in maniera stringente anche tutta questa opera, di grande successo in sala (fu il decimo incasso della stagione italiana 1964-65) e all’epoca subissato di critiche negative decisamente miopi.

Stavolta Pietrangeli ribalta il suo discorso, confeziona una sorta di lungo negativo del suo cinema in cui la donna non ricopre un predominante ruolo narrativo e analitico, ma occupa, invade, monopolizza poi fino all’ossessione l’immaginario maschile. Secondo tale linea Il magnifico cornuto finisce così per raccontare la collocazione psico-affettiva della figura femminile in un universo finemente caratterizzato sotto il profilo sociale, ma conservando palesi ambizioni universali, in cui la crescente nevrosi di Andrea Artusi appare il frutto assoluto di un’ideologia consumistica. Una spinta al possesso e all’esibizione così invasiva che lentamente perde di vista il suo stesso oggetto: il piacere del consumo. Consumare la propria donna-automobile passa in secondo piano, l’accesso al piacere è sempre più impedito, man mano che subentra il tarlo nevrotico della perdita del possesso esclusivo.
Come spesso accade nel cinema di Pietrangeli, Il magnifico cornuto vede la luce in un contesto eminentemente industriale. Viene realizzato molto rapidamente, all’incirca un anno dopo di La visita (1963) e nel consueto contesto di vorace produzione di commedia all’italiana che caratterizza quegli anni. L’occasione è data dal testo teatrale Le cocu magnifique (1920) di Fernand Crommelynck, che possiamo agevolmente dimenticare come fonte originaria, poiché Pietrangeli ne prende sommariamente le linee narrative principali (il paradosso del geloso che preferisce avere la certezza del tradimento della moglie, piuttosto che macerarsi nel dubbio) per riadattarlo a un discorso radicalmente diverso. È facile anche immaginare da che cosa sia scaturito l’interesse industriale intorno a un soggetto simile: il tema delle corna, nell’Italia del neonato benessere economico, viene ad assumere i tratti di un assoluto da commedia, tanto che lo ritroveremo declinato sotto decine di letture diverse in numerosissime opere, con particolare successo nel sottogenere del film a episodi.

D’altra parte le corna costituiscono un archetipo comico di antica derivazione, e in qualche modo questa sua configurazione ancestrale contribuisce alla particolare temperatura del film di Pietrangeli, che combina sagacemente il riaggiornamento del tema alle coordinate sociali dei nostri anni Sessanta con venature progressivamente assolute e ontologiche. La condizione di Andrea Artusi si tramuta da contingente, legata al suo tempo, a universalmente patologica, secondo un conclamato pessimismo sull’estrema fragilità delle strutture psico-affettive dell’uomo moderno.
L’Artusi protagonista è il classico uomo arrivato. Industriale di cappelli da più generazioni, ha al suo fianco la bella moglie Maria Grazia (Claudia Cardinale, estremamente funzionale come corpo-oggetto di splendente bellezza), una sontuosa villa in via di ristrutturazione, e si muove in società con la sicumera di chi domina la realtà con un solo sguardo. Ben consapevole delle dinamiche d’adulterio che regolano il suo universo sociale, Andrea finisce per cadere in tentazione a sua volta, tradendo Maria Grazia con una bella signora. Ma una volta entrato in contatto tramite la sua amante con l’universo psico-sociale della donna adultera, Andrea si avventura nei sentieri del dubbio, terrorizzato dall’idea che anche sua moglie possa comportarsi nello stesso modo a sua insaputa. Inizia così una discesa agli inferi della sfiducia, del controllo, e gradualmente dell’ossessione.
Gli indizi del presunto tradimento vengono puntualmente sconfessati dalla realtà dei fatti, ma la ricerca di Andrea non ha più fine. Si autogenera, appuntandosi ogni volta a un dettaglio diverso, a una diversa mancanza, assenza o particolare insignificante. Finché non emerge platealmente la patologia, con grande spavento e preoccupazione di Maria Grazia, che si vede a poco a poco imprigionata dalle ossessioni del marito, nevroticamente desideroso di ascoltare una confessione su un tradimento mai avvenuto. Perché, per l’appunto, il dubbio è peggiore della certezza (eppure la certezza non metterà comunque a tacere il furore di Andrea, ormai incastrato in uno spietato meccanismo mentale). La beffa finale, com’è ovvio, è dietro l’angolo.

Pietrangeli si colloca in piena coerenza nelle dinamiche da commedia all’italiana, giunta al suo zenit espressivo proprio in quegli anni. Ma più di tutto emerge una non comune raffinatezza del discorso filmico, in cui ogni singola scelta autoriale pare mossa da uno sguardo fortemente consapevole sugli strumenti del mezzo-cinema. È evidente insomma uno sfruttamento più riflessivo delle risorse espressive del linguaggio (Ettore Scola definì Pietrangeli “il regista dei 14 ciak”, ovvero ripeteva le riprese di ogni inquadratura dai 14 ciak in su provando varie soluzioni), tramite scelte filmiche che si sposano in modo stringente al profilmico. Basti vedere la lunga e significativa sequenza del secondo incontro tra Andrea e la sua amante, quando il sospetto, già emerso in precedenza, prende forma in modo più consistente nella mente dell’uomo. Nello scambio di battute più pregnante tra i due, Pietrangeli si affida a un classico campo-controcampo, ma scegliendo un punto di vista decisamente sui generis. La macchina da presa è leggermente ribassata rispetto ai volti dei due attori, un leggerissimo contre-plongé che non deforma platealmente i volti, ma opera comunque una distorsione nella grammatica filmica convenzionale, favorita anche dalla strettezza del frame in un’interessante via mediana tra primo e primissimo piano. È il sospetto e l’angoscia, che iniziano a invadere tutti gli spazi mentali di Andrea e che si rifrangono nella consistenza visiva della serie d’inquadrature.
Si tratta di un progressivo incupirsi linguistico che non solo si fa forte di strumenti più immediati (la fotografia sempre più scura, o drasticamente alternata tra chiari e scuri), ma anche di scelte di macchina, che oltretutto mostra un’accentuata motilità con conseguente, sottile distorsione degli spazi. Di più: tale sequenza con l’amante Cristiana, momento decisivo di rivelazione dell’ossessione a se stessa, si conclude con una finezza di sceneggiatura. Andrea si rifiuta di compiere adulterio seguendo un doppio movimento psichico. Da un lato, da quel momento in poi tradire significa doppiare il presunto adulterio di Maria Grazia collocando Cristiana al suo posto (e Andrea assume di sé il ruolo del marito tradito, pur essendo l’amante cornificatore); dall’altro, Andrea preferisce continuare a parlare, ciò che da lì in poi prediligerà sempre per dare sfogo verbale alla sua ossessione totalizzante. Una totale sostituzione del pensiero, e del pensiero espresso verbalmente, all’azione, che finisce poi per condizionare l’azione stessa verso la follia.

Come già succedeva in La visita, assumono anche in questo film un peso rilevante le immagini mentali. Nel film sulla “bella Culandrona” e le sue negate speranze di felicità tali parentesi narrative prendevano la forma del flashback nella memoria ben segnalato e autoconcluso, mentre qui Pietrangeli entra direttamente nel territorio del delirio a occhi aperti (il passo successivo sarà la totale frammentazione narrativa di Io la conoscevo bene, 1965). Nel corso del film Andrea Artusi immagina più volte scene di tradimento della moglie sempre più parossistiche, fino all’audace sesso di gruppo con alcuni degli invitati maschi alla festa d’inaugurazione della villa. Pietrangeli non tenta però una vera e propria mimesi dei processi mentali, bensì imposta tali sequenze secondo un principio di coreografia ben congegnata dai tratti epifanici. Non si tratta di una “para-fellinata”, ma di una scelta in piena coerenza rispetto al profilo di Andrea, che per l’appunto vive in una dimensione di mostrazione pubblica di Maria Grazia come trofeo di cui andare orgogliosi. La nemesi si riconverte nel tormento immaginario di una mostrazione pubblica sfuggita al suo controllo, in cui letteralmente Maria Grazia mette in scena se stessa per un pubblico famelico.

Altrettanto raffinato e inedito appare l’estremo rilievo dato alla colonna audio, non mero strumento a supporto del visivo, bensì fondamentale elemento espressivo. È anzi il suono per primo a dare la cifra dell’emersione ossessiva, quando ancora è al suo livello embrionale. Durante un dialogo in camera da letto tra Andrea e Maria Grazia emerge in colonna audio un ticchettio, al quale Pietrangeli dà netta evidenza. Benché ben supportato da un efficace commento musicale di Armando Trovajoli, Il magnifico cornuto troverà la sua costante sonora in quel ticchettio digrignato, ripetuto fino allo spasimo, disturbante pure per lo spettatore, che assume risonanze psichiche nel progressivo vortice delirante del protagonista. È il suono del suo pensiero accartocciato, una duplicazione ben percepibile del ruminare di Andrea, il suggerimento del suo progressivo disgregarsi, che non a caso trova un’altra felice intuizione profilmica nell’incessante ricorrere di immagini allo specchio, duplicazione e frantumazione dell’integrità psico-fisica umana.
Andrea Artusi è insomma l’uomo moderno colto nella sua specifica crisi d’identità, che già tanta letteratura italiana aveva raccontato nel corso della prima metà del Novecento. Stavolta è il delirio d’onnipotenza dell’uomo consumistico a tramutare il sogno in incubo. Nell’antropologia maschile del boom anni Sessanta assumono un rilievo decisivo l’efficienza e il controllo, che non prevedono però l’unico elemento sul quale possono basarsi veri rapporti umani, tanto più di coppia: la fiducia. Per Andrea Artusi doversi fidare è la condanna peggiore, cosicché la smagliante società italica dei consumi anni Sessanta rivela il suo lato tetro e spaventoso. E la commedia all’italiana, in una delle sue manifestazioni più perfette e cristalline proprio perché fortemente personalizzata da uno sguardo autoriale, mostra il suo rovescio angoscioso e soffocante. Si ride, e ci si strozza nel ghigno.

Info
La scheda di Il magnifico cornuto su Wikipedia.
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