11 donne a Parigi

11 donne a Parigi

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11 donne a Parigi, esordio nella regia di un lungometraggio di Audrey Dana, vuole essere satira collettiva sulla condizione della donna nella modernità; ma non va mai oltre la risata di pancia, che si nutre degli stereotipi più che smontarli.

Lo stereotipo è donna

Sullo sfondo della primavera parigina, si intrecciano le storie di undici donne diverse: madri, donne d’affari, amiche, single o sposate, ognuna a rappresentare un aspetto diverso della figura femminile moderna. [sinossi]

È surreale vedere un film come questo 11 donne a Parigi, che contiene in sé un tentativo di rappresentazione e demitizzazione della capitale francese quale emblema di romanticismo, proprio ora; ora che la ferita portata alla città dagli attentati del 13 novembre scorso ne ha irrimediabilmente cambiato la faccia per lo spettatore occidentale. La tempistica distributiva del film di Audrey Dana, datato 2014 (insieme alla macabra coincidenza che fa chiamare “Ysis” una delle sue protagoniste) ne indebolisce inevitabilmente lo scopo, a prescindere dalla sua qualità specifica: la Parigi rappresentata dal film, viene da pensare, non esiste più, è stata già sfregiata e fatta oggetto di un attacco che ne ha cambiato il volto, il modo di abitarla, la rappresentazione mentale. Il suo ruolo di sfondo per una commedia che vuole giocare con gli stereotipi, quindi (per demeriti che ovviamente non sono da attribuire al film) appare già irrimediabilmente vecchio. Forse non più replicabile al cinema, così com’era, da qui a molto tempo.
La premessa, al netto di ogni retorica, andava fatta: perché la visione di un film, e la sua percezione, si nutrono (anche) delle contingenze storiche in cui avvengono, degli accidenti piccoli e grandi che le orientano. Né lo spettatore, né il critico, sono monadi isolate dal mondo e dai suoi eventi; e il cinema è un medium che mantiene (in tutte le sue forme) uno stretto legame con la realtà di cui si nutre.

Quella Parigi pre-13 novembre, che ci chiama a un breve viaggio nel tempo mentale, è nel film della Dana (al suo esordio nella regia di un lungometraggio) teatro di undici storie che spaziano tra il farsesco, il caricaturale e l’edificante; con protagoniste altrettante figure femminili ben integrate nel tessuto sociale della città, dai ruoli e dagli status tra i più vari, ma tutte utilizzate per una dichiarata opera di demolizione di piccoli e grandi stereotipi sulla figura della donna nella modernità. Al centro di ogni storia, il rapporto con la famiglia e la realizzazione professionale, con l’uomo e con l’evoluzione dei ruoli; e da ultimo col corpo, l’invecchiamento e il pensiero della morte. Sarebbe esercizio sterile elencare le diverse storie e vicende delle undici protagoniste, che presto finiscono per confondersi e sovrapporsi anche nella mente dello spettatore: in un racconto rapsodico e che non brilla certo (e forse non vuole farlo) per organicità, lo scopo della sceneggiatura sembra essere più quello di restituire un colpo d’occhio generale, un’atmosfera, un mood divertito e onnicomprensivo. L’empatia e la partecipazione emotiva, sembra dirci la regista, non sono una preoccupazione primaria; e, nel grado in cui sono presenti, restano funzionali a un racconto che vuole avere ambizioni più generali.

È proprio nelle sue ambizioni (dovremmo dire velleità) di ritratto generale e interclassista sull’universo femminile, che 11 donne a Parigi fallisce grossolanamente i suoi obiettivi. Nel suo affanno, quasi programmatico, di smontare gli stereotipi, la Dana finisce spesso per abbracciarli (la giovane fedifraga che fa sentire sempre in colpa il marito, l’uomo zerbino vessato da moglie e amante) o per opporvisi con un umorismo di grana talmente grossa da farle perdere del tutto di vista il bersaglio. È la scarsa credibilità e l’approssimazione psicologica, più che la volgarità, che colpiscono nel personaggio di una Laetitia Casta alle prese con rumorosi problemi intestinali di fronte agli uomini che l’attraggono, o in quello di una Julie Ferrier a cui una botta in testa fa crollare improvvisamente i freni inibitori. Il tono sopra le righe non trova mai una giustificazione che vada oltre il richiamo alla risata di pancia, facile e decontestualizzata; con l’utilizzo di “maschere” sociali che, col pretesto della stigmatizzazione, vengono in realtà sfruttate per gag che nascono e muoiono nel tempo delle rispettive storie. Incapace di approntare davvero, con consapevolezza, una satira di costume che parta dalle varie sfaccettature della condizione femminile, la Dana preferisce il parossismo, il depotenziamento caricaturale, la barzelletta filmata.

Su uno sfondo metropolitano che è un po’ cartolina, un po’ tentativo (anch’esso) di giocare con gli stereotipi, il film si avvia a un prevedibile finale collettivo, in cui le singole vicende (maldestramente) incastrate dalla sceneggiatura, trovano una scontata composizione.
“Immagina un mondo in cui non valga la pena stare con gli uomini”, dice una delle protagoniste verso la fine del film. Ecco, se il lettore ci concede un accostamento ardito, vorremmo consigliare (in primis alla regista) la visione dello spassoso mockumentary canadese No Men Beyond This Point: in quest’ultimo, viene esplorata, in una distopia centrata e azzeccatissima, proprio l’ipotesi evidenziata nel dialogo. In un prodotto che fa uso anch’esso degli stereotipi, ma che riesce ad evidenziarli e smontarli con ben diversa consapevolezza, pregnanza ed equilibrio.

Info
Il trailer di 11 donne a Parigi.
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