Una vita da gatto

Una vita da gatto

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In Una vita da gatto Kevin Spacey è un miliardario privo di scrupoli che ritrova i valori della famiglia dopo essersi trasformato in un micione. Una commedia che non fa ridere, e di certo non ha nove vite…

La commedia (fa le) fusa

Tom Brand è un miliardario di grande successo ma il suo stile di vita lo ha allontanato totalmente da sua moglie Lara e da sua figlia Rebecca. Intento a recuperare il rapporto con la figlia, Tom decide di regalarle per il suo compleanno il gattino che desidera da molto tempo. Sulla strada verso casa, Tom è coinvolto in un terribile incidente e quando riprende conoscenza scopre di essere intrappolato nel corpo del gatto appena acquistato. Adottato dalla sua stessa famiglia, sperimenterà una nuova prospettiva di vita all’interno di casa sua. [sinossi]

C’era un’epoca in cui film come Una vita da gatto apparivano con grande regolarità sugli schermi. Era l’epoca dei lungometraggi “dal vivo” prodotti o co-prodotti dai Walt Disney Studios: a fianco de La carica dei 101, Alice nel paese delle meraviglie e La bella addormentata nel bosco, nelle sale cinematografiche di tutto il mondo arrivavano i vari Zanna gialla, Il cowboy con il velo da sposa, Il fantasma del pirata Barbanera e Un maggiolino tutto matto. Film affidati a registi quali Robert Stevenson, James Nielson, David Swift, Norman Tokar, e con un parterre di stelle ad hoc, da Dean Jones a Suzanne Pleshette, da Hayley Mills a David Tomlinson, passando per dei giovanissimi Kurt Russell e Jodie Foster. In questo scenario proliferarono film con protagonisti animali vari (F.B.I. – Operazione gatto, Il gatto venuto dallo spazio, Quattro bassotti per un danese, L’incredibile avventura), e non pochi furono i casi di storie che prevedevano che qualcuno – di solito un padre di famiglia – si ritrovasse per un periodo a vivere nel corpo di una bestiola: su tutti valgono gli esempi di Geremia cane e spia di Charles Barton (1959) e del suo seguito Quello strano cane… di papà, diretto da Robert Stevenson nel 1976.
In seguito, con l’avvento degli anni Ottanta, lo sguardo della Disney virò verso progetti produttivi meno naïf, almeno sulla carta, e ben più ambiziosi come la fantascienza di The Black Hole di Gary Nelson e Tron di Steven Lisberger, il Popeye di Robert Altman, il quasi-supereroe Condorman di Charles Jarrott, gli horror Gli occhi del parco di John Hough (e il non accreditato Vincent McEveety) e Qualcosa di sinistro sta per accadere di Jack Clayton, l’avventura “d’autore” Mai gridare al lupo di Carroll Ballard.

Non c’è dubbio che il team di sceneggiatori assoldati da EuropaCorp (perché il film ha alle spalle soldi francesi e cinesi, nonostante sia in tutto e per tutto hollywoodiano) per portare a termine lo script di Una vita da gatto abbiano passato in rassegna la filmografia Disney: lo dimostra la struttura narrativa, la presenza di un personaggio che svolge la funzione di educatore dell’uomo/bestia – nel caso specifico un Christopher Walken un po’ appannato, che gestisce un negozio di animali che assomiglia in tutto e per tutto alla bottega cinese in cui viene comprato il mogwai Gizmo in Gremlins di Joe Dante –, la morale di fondo che vuole la famiglia come unico centro reale dell’esistenza. Non a caso Kevin Spacey prima di ritrovarsi a sputare palle di pelo e defecare su una lettiera è un miliardario privo di scrupoli, tycoon potentissimo che pensa che i soldi bastino a comprare ogni cosa. Ma non ha fatto i conti con l’affetto dei familiari…
Una vita da gatto è un film che sa di stantio, procede in maniera meccanica verso soluzioni ampiamente previste dal pubblico (anche da quello dei più piccini, non v’è da dubitarne), e finge di criticare il capitalismo per porre in realtà l’accento solo sulla necessità di ritrovare nella famiglia l’epicentro del discorso umano. Per tornare a essere quel che è e a camminare su due piedi Tom Brand non ha bisogno di rinunciare alla sua etica capitalista, né di rivedere realmente la propria idea di società: l’importante è che trovi il tempo per passare più ore con la figlioletta adorata, e con la mogliettina un po’ stufa ma paziente. Una posizione ipocrita e reazionaria, che appesantisce ancora di più un film che già sconta una mancanza pressoché endemica di risate: gli sketch non superano mai il bambinesco limite di una buffoneria d’accatto, e le movenze del gatto/Spacey in computer grafica sono ben oltre la soglia di sopportazione. Un film da passaggio televisivo, da guardare distrattamente in televisione fino a quando il vostro gatto poggerà una delle zampine sul telecomando e cambierà canale.

Info
Una vita da gatto, il trailer.
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