Iene

Ispirato a La visita della vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt, Iene è il secondo lungometraggio del senegalese Djibril Diop Mambéty, diretto nel 1992 a venti anni dall’esordio. Uno sguardo sull’Africa (mai davvero) post-coloniale che è anche riflessione sui rapporti con l’Europa e sulla colpa individuale e collettiva. In Cannes Classics.

“Al grande Friedrich”

Linguère, una vecchia signora diventata ormai ricchissima, ritorna dopo molti anni a Colobane, suo paese di origine. Il villaggio, in preda alla povertà più assoluta, accoglie Linguère sperando di ricevere beni e favori per migliorare la propria situazione. Per incoraggiare la sua generosità, affidano a Dramaan, un droghiere locale che una volta aveva corteggiato (e ingannato) la donna, l’incarico di convincerla ad aiutare la popolazione. Linguère, in realtà, è tornata con l’intenzione di condividere le sue ricchezze con il villaggio, ma solo in cambio di una particolare richiesta ai suoi concittadini: l’uccisione di Dramaan. [sinossi]

Le iene vivono in branco, e si nutrono di carcasse o di animali indeboliti dalla perdita di sangue, il cui odore sanno percepire anche a centinaia di metri di distanza. Le iene, che un tempo popolavano anche l’Europa mediterranea e gran parte dell’Asia, sono ora ridotte di numero, quasi completamente circoscritte in Africa e rischiano l’estinzione. Rischia di estinguersi dalla memoria cinefila anche il ricordo di Djibril Diop Mambéty, tra i più liberi e visionari pensatori di immagini che la Settima Arte abbia partorito negli ultimi cinque decenni; figlio del sessantotto, ma soprattutto di quella lotta per la liberazione prima e l’emancipazione poi dell’Africa nel suo complesso, Mambéty è oggi un cineasta perduto, dimenticato in un angolo della mente. A luglio ricorrerà il ventennale della sua prematura scomparsa (ad appena cinquantatré anni), e chissà se al di fuori di strette cerchie cinefile qualcuno avrà la voglia e il coraggio di rimettere mano a un discorso sul cinema panafricano, sulla sua importanza cruciale e sulla crisi cui ha contribuito in maniera concreta quell’Europa cieca, e in gran parte criminale, nei rapporti con la culla dell’umanità. Djibril Diop Mambéty abbandonò le scene con appena un piccolo pugno di opere dirette nel corso di trent’anni di carriera: un paio di corti – Badou Boy vinse nel 1970 il premio per la categoria a Cartagena –, un paio di medi compreso il meraviglioso e postumo La Petite vendeuse du Soleil, che in Italia è stato più volte programmato da RaiTre nelle notti di Fuori Orario, un documentario sulla lavorazione di Yaaba del burkinabé Idrissa Ouédraogo, e due lungometraggi di finzione, Touki Bouki e per l’appunto Iene (Hyènes). È passata sotto silenzio la programmazione di quest’ultimo all’interno del programma di Cannes Classics sulla Croisette, ma si tratta al contrario di un evento a suo modo epocale, il punto di ri-partenza per riaprire il dibattito sul cinema africano, sulla necessità di troncare il cordone ombelicale con un’Europa ferale e ritrovare la propria dimensione immaginaria, onirica, politica e sociale.

Iene può essere in qualche modo considerato l’ampliamento e il completamento del discorso inaugurato nel 1973 da Touki Bouki, conosciuto in Italia con il titolo Il viaggio della iena, anche se non sotto un profilo strettamente narrativo. Touki Bouki raccontava una diaspora ideale, il tentativo di abbandonare la propria condizione sociale abbandonando la propria terra. Tentativo impossibile, e destinato a un’ulteriore fuga a ritroso. Iene, che prende le movenze da La visita della vecchia signora di Friedrich Dürrenmatt, inizia con un ritorno a casa dall’esterno: l’anziana Linguère Ramatou – straordinaria Ami Diakhate – riappare a Colobane e mette in subbuglio l’intero villaggio. L’annuncio del suo arrivo interrompe perfino il ballo collettivo nel locale di Dramaan, l’uomo che un tempo sedusse e ingannò la donna. È il primo passo verso un progressivo avvicinarsi al baratro, della follia individuale come di quella dell’intera comunità. Un percorso di (auto)distruzione che senza dubbio può essere letto come metafora del fallimento post-coloniale, ma allo stesso tempo come incapacità di una comunità di scrollarsi davvero di dosso l’educazione occidentale. Non è un caso, probabilmente, che Mambéty riprenda Dürrenmatt, e che nel riprenderlo non senta alcuna necessità di “smentirlo” o di “tradirlo”.
Anche per gli abitanti di Colobane, come per quelli della Güllen di Dürrenmatt, i concetti di etica e di “collettivo” vengono meno, erosi da quel desiderio di potere che può garantire il denaro della “vecchia signora”. Una vecchia signora che un tempo era l’Europa, ma ora è a sua volta africana e, assimilati i disvalori acquisiti dal nord del Mediterraneo, li utilizza per raggiungere una vendetta che resterà inevitabilmente amara. I cittadini di Colobane accetteranno la messa a morte del proprietario della drogheria, agognando i soldi e le ricchezze, ma l’effimera ricchezza del Capitale è solo un’enorme ruspa che massacra il terreno. Una volta di più.

Sfoderando uno stile inimitabile, che si muove nella metafora rifuggendo i contorni fin troppo rigidi del reale e riscrivendolo di volta in volta sull’immagine, lavorando la materia onirica con una libertà creativa difficile da riscontrare altrove, Djibril Diop Mambéty firma con Iene una ballata sarcastica e dolorosissima, vitale e protesa sempre verso la morte, distrutta prima ancora che distruttiva. Un’opera epocale, che forse nel 1992 a Cannes non venne compresa fino in fondo (pura annotazione curiosa: al festival in quell’edizione c’erano due iene, quelle di Mambéty in concorso, e quelle di Quentin Tarantino fuori dalla competizione); come dopotutto poteva comprenderne la forza una giuria presieduta da Gérard Depardieu che arrivò ad assegnare la Palma d’Oro addirittura al mediocre Con le migliori intenzioni di Bille August?
Il ritorno di Mambéty a Cannes, a ventisei anni da quei giorni e a venti dalla sua morte, deve essere un punto di svolto, per imparare di nuovo – o forse per la prima volta – a conoscere il cinema di questo splendido autore e a conoscere e amare il cinema panafricano.

Info
Il trailer di Iene.
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